Sei stato l’ultimo uomo a nutrirti di parole che avessero un gusto, un corpo, un suono, una visuale. Dopo di te, il nulla travestito da tutto.
Avevi le mani stanche e gli occhi liquidi.
I tuoi capelli erano ricci e incanutiti, la barba folta, il viso spigoloso e scuro pareva sputato dalla bocca di un vulcano.
Bartolomeo, il tuo nome.
Te ne stavi seduto lì, sul bordo di un marciapiede, rannicchiato su te stesso con le braccia strette attorno alle ginocchia ossute, vestito di niente d’estate e d’inverno. Solo un maglione rattoppato e un calzone logoro, sandali ai piedi, una coperta sulle spalle quando il freddo si faceva pungente. Posavi su un marciapiede le tue ossa e il tuo vecchio cappello a tesa larga e ai passanti dicevi: “Il vostro tempo per una storia.” Non chiedevi nient’altro. Non volevi nient’altro. Soltanto un po’ di tempo, ché per vivere ti facevi bastare la pensione sociale, ché i soldi girano in circolo, vanno e ritornano, mentre il tempo tira dritto e si consuma. Narravi storie per tentare di fermarlo, il tempo. Le tenevi tutte in testa, pigiate nel cappello, così dicevi, ma – dicevi anche – avevano bisogno di continuare a vagare per non rimanere soffocate dall’indifferenza.
In molti si fermavano ad ascoltarti. Tu eri un artista della parola. Con le parole riuscivi ad ammaliare, a ingentilire ed educare gli animi ignobili, a scuotere quelli vinti. Quando cominciavi a raccontare, i tuoi occhi si facevano lampo e la tua voce, tuono e non esistevano più mansioni da svolgere, obblighi da onorare, cartellini da timbrare, soltanto la tua voce, e non esistevano più il marciapiede e la strada e le case e le auto intorno, soltanto la tua voce.
Non so se te ne sei mai reso conto. Forse, sì. Per questo raccontavi le tue storie che erano eruzioni di lava, terra che tremava e tornava ad acquietarsi, tempesta di grandine e calma dopo la tempesta. Non hai mai detto se fossero vere o meno. Ho sempre pensato che nei tuoi racconti almeno qualcosa corrispondesse a verità, ma questa è soltanto un’ipotesi ché la verità nelle parole si confonde e sa farsi bugia, così come la bugia sa spacciarsi per verità. Nelle tue, poi, si confondeva di più: si faceva leggenda.
Non hai mai detto nulla del tuo passato, neanche il tuo cognome hai svelato mai. Qualcuno diceva che fossi nato in un borgo ormai disabitato e che, fino agli inizi degli anni ’50, avessi zappato i campi dei padroni con la rassegnazione dei vinti che non sognano di diventare vincitori. Chissà cosa accadde dopo per indurti a lasciare la tua terra e vagare per anni di paese in paese. È stata una scelta di libertà o un’espiazione? Neanche questo hai mai raccontato, forse investito da un senso di vergogna, forse di rimorso, di quella specie di vergogna o di rimorso capaci di piegare in due le persone, di rivoltarle, di portarle a riconsiderare tutto d’accapo.
Sei morto su un marciapiede, in un paese come tanti, in una sera come tante. Ti ricopriva una pioggia di foglie rosse d’autunno. Poco prima di lasciarci, nel pomeriggio ammantato dalla nebbia, hai tirato fuori dal cappello la tua ultima storia. Qualcuno giura che fosse accaduta per davvero e che tu ne fossi sopravvissuto. Nel manifesto mortuario che il Comune ti dedicò stava scritto soltanto: “Bartolomeo non è più con noi.”
Dopo di te, a soffiare sui marciapiedi è rimasto soltanto il vento delle chiacchiere inutili e pretenziose, partorite da sensi rattrappiti e da pensieri ingessati incapaci di vedere l’oltre, e il dire ha assunto il bieco valore della piaggeria, della vacuità, della vanagloria, e la fantasia è scomparsa persino dai sogni.
Dopo di te, il nulla travestito da tutto. Essere parte di un tutto per non essere nessuno.
1 commento su “A Bartolomeo, l’artista della parola”
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