Racconto di Antonella Perrotta
Era tutta colpa sua.
Quelle febbri che spaccavano le ossa, quegli spasmi, quei respiri affannosi e quella smania d’aria come si stesse chiusi in una bara. E c’era chi, nella bara, ci finiva per davvero.
In paese tutto era cominciato subito dopo la guerra, quando c’era bisogno di un po’ di pace e di tranquillità e, invece no, pure quella epidemia bisognava sopportare.
Colpa sua: di Antonino Maria Giuseppe Filiberti, detto il Conte nero.
Un corvo pareva, fasciato nelle sue vesti lugubri, lugubre pure l’espressione stampata perennemente sul viso come se gli fosse venuto a mancare qualcuno, mentre a lui, a differenza della maggioranza dei paesani e non solo, nessuno era venuto a mancare perché nessuno teneva. Solo come un cane e per sua scelta, sia chiaro. Gli bastavano le ricchezze, solo di quelle gli importava, proprietà, oro e soldi fruscianti. Degli uomini faceva a meno, il corvaccio nero.
Che fosse colpa sua era provato dal fatto che mentre in paese tutti si ammalavano – uomini, donne, bambini, poveri e ricchi, nessuno era risparmiato – il Conte nero pareva immune dalla qualunque.
“Perché lui mangia la carne e si tiene in forze” diceva qualcuno.
“Perché tiene in cantina il vino buono” diceva qualcun altro, ma io ero sicuro che proprio lui spargesse intorno quel veleno malefico. Lui, che se ne andava in giro come se nulla fosse, con un insolito sorrisetto beffardo stampato sul viso color cenere, quasi godesse di ciò che stava accadendo agli altri.
Non c’era alcun dubbio: Antonino Filiberti era l’untore.
Per questa evidente e inconfutata verità, bisognava che sparisse dal paese per sempre. Per il bene di tutti. Certo, la purificazione andava fatta con accortezza ché, hai visto mai, a qualche uomo di legge fosse venuto lo sghiribizzo di attaccarsi al capello e ritenerla un reato sanzionabile, invece che un’azione per la salvezza comune. Bisognava liberarsi dell’untore con discrezione, insomma, ma in maniera definitiva.
Fummo io, Tonino U cicatu che cicatu non era, Silviuccio U campusantaru, con la complicità della bella Rosa, la figlia del mastro d’ascia, a combinare il fatto. Lavoretto semplice e pulito.
Rosa provvide ad ammaliare il corvaccio cui, nonostante tutto, le femmine non avevano mai fatto schifo, seppure per un’oretta al massimo. Se lo portò in una vinèdda cieca, promettendogli, con gli occhi e con la veste abbondantemente scollata, tanto piacere quanto gliene sarebbe bastato. Lì, io lo aspettavo con gli altri due. Un colpo secco in testa mentre armeggiava con i pantaloni e il vecchio porco stava già bello e sistemato. Colpo con una pietra di mare, ma non una di quelle arrotondate dallo sciabordio. Aguzza e tagliente, invece, come pietra vergine. E poi, a mare trovò la sua tomba e gli andò pure bene ché essere mangiato dai pesci è preferibile a essere mangiato dalla febbre e dai vermi.
L’indomani, l’azione avrebbe già dovuto dare i suoi frutti. Aspettai, aspettammo, ma i paesani continuavano ad ammalarsi. Forse, la magarìa era così potente da volerci una settimana. Ma, da lì a una settimana, fu proprio Rosa ad ammalarsi e, poi, anche la figlia del campusantaru.
Fu allora che mi venne il dubbio di avere ammazzato l’untore sbagliato.
Certo, la morte del Filiberti non la pianse nessuno e nessuno neanche lo cercò per molto tempo, ché la sua mancanza non era qualcosa di cui darsi pena, ma sta di fatto che la caccia al responsabile di quell’epidemia, influenza spagnola la chiamavano, richiese tempo e pazienza. Due anni circa.
In paese io fui l’ultimo a esserne infettato e l’ultimo a morirne.
Io, Francesco Barilla, fui per tutti l’untore. Chi l’avrebbe mai detto.