Figlia

Sine Pagina - Figlia
Opera di Mario Perrotta, per gentile concessione dell’artista. ©Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata
Lettera di Antonella Perrotta

Sei nata che avevo vent’anni, tra l’appello di storia moderna e quello di letteratura italiana.

“Mi sono pisciata addosso” ho detto a Manuela, la mia compagna di stanza al quarto anno di biologia. Era notte, saranno state suppergiù le tre, ed io l’ho svegliata urlando proprio così: “Manue’, mi so’ pisciata addosso!” E lei ha fatto un balzo sul letto, intontita, si è strofinata gli occhi e ha detto: “Mi sa che ti si so’ rotte le acque …” e si è alzata, ha chiamato l’ambulanza, si è preparata un caffè, mentre io mettevo un po’ di roba nel borsone per me e per te, la mia bambina, ché lo sapevo già saresti stata una bambina, e ridevo, ridevo per non piangere, perché ero talmente sfigata da non potermi permettere un taxi, di avere un’auto neanche a parlarne e nemmeno un uomo che mi stringesse tra le braccia e mi stesse appresso.

Eravamo studentesse fuori sede, io e Manuela. Studente fuori sede anche tuo padre, lo chiamo così giusto per capirci, un altro sfigato che soltanto sogni teneva nel portafogli. Studiava scienze politiche. Diceva di voler diventare un diplomatico. Quando gli ho detto d’essere incinta, mi ha risposto: “Teniamolo ‘sto bambino. Farò tutti i lavori che mi capiteranno, ma di studiare non smetto. Voglio diventare un diplomatico, lo sai.” E io l’ho abbracciato e mi sono messa a ridere, di una risata amara, perché lo sapevo che le braccia sue non erano buone per il lavoro. E poi, quale lavoro? “Quale lavoro potresti fare adesso che non ce ne sta, di lavoro, in giro?” gli ho detto e lui: “Qualunque” mi ha risposto. Ma io lo sapevo che le sue braccia non erano buone.

La notte in cui ti ho partorito, l’ambulanza è arrivata col comodo suo e Manuela stava al terzo caffè e alla terza sigaretta. Io, sdraiata sul letto, aspettavo le prime contrazioni.

“Che ci avete chiamato a fare? Non c’è urgenza” ha detto l’infermiere mentre mi aiutava a salire. Il medico di turno, invece, mi teneva la mano e sorrideva. Manuela stava con me, pure lei mi teneva la mano. Provava a chiamare il voglio-fare-il-diplomatico, ma lui aveva il cellulare spento. “Vaffanculo!” ha esclamato, “ce la faremo da sole!” e, poi, rivolgendosi a me: “Giusto che ce la faremo da sole? Ci sono io con te” e mi ha abbracciato ed io le ho accarezzato i capelli lunghi e arruffati e le ho sorriso.

Sei stata brava, bambina mia, hai fatto tutto come dovevi. La mattina dopo eri già venuta fuori. Non mi hai lasciato neanche una cicatrice che ricordasse al mio corpo di averti partorita. Di te ho visto soltanto la testa che sbucava fra le mie gambe, piena di capelli biondicci, bagnati, appiccicati al cranio. Sembravi un Ciccio Bello che ha fatto lo shampoo. Ricordo l’odore di sangue e di cacca, quella che mi ero fatta addosso nello sforzo di spingere. Ricordo anche un vagito sospeso nell’aria, il tuo vagito, mentre io chiudevo gli occhi e mi lasciavo andare sul lettino.

Lui non ha risposto alle chiamate di Manuela. Non è venuto. Lui è scomparso per sempre.

Ti ho partorito in anonimato, non ti ho riconosciuta, ti ho lasciata lì, in ospedale, dove sei nata. Ho avuto paura per me, per te, per noi. Non avrei dovuto. Oggi, lo so. Ti ho lasciato due tutine rosa, due gialle e due bianche, un lenzuolino ricamato con gli orsetti, uno con i coniglietti e una copertina di lana con i pon pon. Volevo che, quando saresti stata portata via, indossassi qualcosa che avevo comprato io per te, soltanto per te.

Qualcuno ti ha adottata, non so neanche quale sia il tuo nome. Io, nel pensarti, ti chiamo Sofia che significa saggezza, perché spero tu possa essere più saggia di me. Ovunque ti trovi adesso, con chiunque tu stia, qualunque cosa tu faccia, spero che tu sia una donna migliore di me.

Non saprai mai che sono stata io a generarti, a tenerti dentro per nove mesi, a partorirti. Non so se questo basta a essere madre, non so se merito di essere ritenuta e ritenermi madre.

Chi è madre? Chi ti genera, chi ti partorisce, chi ti sta vicino mentre cresci, chi fa tutte queste cose insieme?

Non lo so. Me lo chiedo spesso, una volta mi rispondo in un modo, un’altra in un modo diverso. La verità è che non so darmi una risposta che mi vada bene per sempre. Certamente chi ama suo figlio più di se stessa. Avessi almeno una cicatrice da toccare che mi faccia pensare che, sì, è tutto vero, perché a volte mi viene pure da pensare di aver sognato.

Io non lo dico, di essere madre. Però, un po’ lo penso. Tutte le notti che rivedo te, il mio Ciccio Bello grinzoso che ha fatto lo shampoo, e conto i giorni che sono passati dalla tua nascita. Fra cinque giorni compi diciotto anni.

Mi hanno detto che lui insegna in un istituto tecnico. Il suo portafogli pieno di sogni si è perso per strada e nessuno gliel’ha restituito. Anch’io sono un’insegnante. Trascorro le mie giornate con tanti ragazzi, molti della tua età, e cerco me nei loro visi. Cerco te. Forse insegno anche per questo, per cercarti. Non ho avuto altri figli, se non te che, figlia, ti penso così come, madre, un po’ mi penso. Tutte le notti.

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Chi sono

Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.
Se ti va, puoi seguirmi sui miei profili social.

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Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.

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