di Antonella Perrotta
Era notte, era giorno, non ricordo più.
Ci sono luoghi in cui non percepisci lo scorrere del tempo, sono come bolle d’aria nelle quali ti trovi intrappolato e la gola sembra soffocare e il ritmo del cuore impazzire. Ci sono luoghi sospesi tra l’esserci e il non esserci, tra la vita e la morte, tra la disperazione, il dolore e la speranza del sollievo, qualunque sia.
Successe che mi ritrovai lì.
Senza capire come, senza capire quando, era notte, era giorno, non lo distinguo più. Era solo frastuono intorno a me, accozzaglia di voci che percepivo, ma non capivo, camici bianchi e verdi col cartellino al collo, aghi, cateteri, gel appiccicosi, puzza di disinfettante, puzza di piscio. Il corpo è sangue, piscio e merda, carne frangibile, tenera come una cotoletta, inutile rivestirlo di seta, rossetti e bijoux, quello è. Per tutti uguale. Senza distinzione.
Ricostruire eventi avvenuti d’improvviso, inaspettati, scorsi troppo velocemente. Ricostruire sensazioni, controllare le reazioni, tenere a bada il dolore aggrappandomi a qualsiasi pensiero felice per poi scoprire che anche quello non c’era più, perso per strada. Reagire per non soccombere al frastuono, alle voci concitate intorno, all’indifferenza di chi non c’è, al dolore di questo corpo uguale a tutti gli altri, anche se dico “mio”.
Aiutami dio, se ci sei. Non essere indifferente pure tu. Ma, forse, la tua voce è la mia, la tua forza è la mia, il tuo coraggio è il mio, mia l’eternità dell’anima. Non sono stata creata a tua immagine e somiglianza? Aiutami lo stesso. Ovunque tu sia, fuori o dentro di me, ché tu soltanto puoi farlo, nessun altro pensiero può essere forte quanto il tuo, nessun’altra persona importante quanto te che sei in me, che sei me.
C’è un uomo che urla di dolore. Forse non passa la notte. Lo so l’indomani che, la notte, non l’ha passata. Se n’è andato. Non soffre più. Era il suo destino. Così è andata perché così doveva andare, mentre io sto qui, bloccata, dolorante, sola ché si nasce soli, soli si soffre e soli si muore, ogni altro pensiero è illusione, compagnia fallace.
Basta un attimo e l’anima vola via. Basta un attimo e ritorna, contusa. Basta un attimo e comprende, si benda, si medica, si rialza, si tocca il fianco e ogni altra parte dolorante, ingoia e sputa e cammina, varca la porta di quel non-luogo di attesa e di speranza, di morte e di rinascita, corre in strada, respira e continua a camminare. Per me che ho vinto qualcun altro avrà perso. O, forse, vinciamo tutti. O, forse, perdiamo tutti. Più di chiunque altro perde chi rinnega se stesso.
Nell’aria, volano parole come note stonate, farfalle senz’ali, lingue storte e mute pure nel parlare, travestite da agnello sacrificale ma spade nelle vite altrui, offrono mantelli di velluto rosso, sono ami cui abboccare, un nulla da smascherare in uno scorrere di tempo che non batte a tempo e non ha l’eterno della partitura. Non le ascolto. Sono io, il “mio” corpo dolorante, la mia anima salva.
Mi ritrovo su un palcoscenico spoglio su cui cadono gli applausi. Si accendono i riflettori su una figura che indossa i vestiti nuovi dell’imperatore. E quanto sa essere meraviglioso quel tessuto invisibile agli stolti. Non la guardo. Non la vedo più. Sono io, il “mio” corpo dolorante, la mia anima salva.
Affretto il passo. Oltre-Passo.