Sono esistite le streghe?
Per qualcuno, sì.
Ce lo ricorda Leonardo Sciascia che, documenti alla mano, in sole settanta pagine ricostruisce la storia di Caterina Medici e il processo che l’ha vista accusata e condannata per stregoneria.
Il fatto.
È il 1616 e il senatore del Ducato di Milano, Luigi Melzi, accusa dei forti dolori di stomaco di cui i medici ignorano la causa. Un amico di Melzi, il capitan Vacallo, però, è certo non solo della diagnosi, stregoneria, ma anche della colpevole. Sarebbe stata, a suo parere, la serva Caterina Medici, che proprio per Vacallo lavorava prima di essere presa a servizio in casa Melzi, ad aver gettato un maleficio sul senatore di cui è l’amante.
Il movente? Trattenerlo a sé.
Le prove? Talismani malefici ritrovati nella stanza di Caterina, testimonianze a suo sfavore, ma, soprattutto, la sua confessione. Poco importa agli accusatori se è contraddittoria, fantasiosa ed estorta dietro la promessa di aver salva la vita e dopo il patimento di un atroce supplizio. I giudici sanno che “la tortura non è mezzo per iscoprire la verità, ma un invito ad accusarsi reo ugualmente il reo che l’innocente; onde è un mezzo per confondere la verità, non mai per iscoprirla.” Sanno e, ciò nonostante, condannano al rogo Caterina.
Ma perché lo scrittore siciliano mostra tanto interesse verso questo lontano caso di stregoneria?
Innanzitutto, perché il caso è menzionato anche dal Manzoni nei Promessi Sposi. Poi, perché, partendo da un fenomeno lontano nel tempo, lo attualizza nella sua logica. Attento interprete dei problemi della giustizia, individua ciò che i giudici di allora volevano: non la verità, ma la verosimiglianza. E proprio la verosimiglianza è ciò che ancora oggi i magistrati ricercano, dal momento che qualsiasi ricostruzione processuale dei fatti non può che approdare alla più credibile delle verità, sicché si giudica e si condanna sulla base di ciò che verosimilmente è successo, così come ricostruito attraverso l’esame degli atti e delle risultanze processuali. Le confessioni non si estorcono più con la forza, a quelle fantasiose non si crede più, per fortuna, ma l’iter mentis non è mutato, né potrebbe esserlo.
Da osservatore lungimirante dei fenomeni della società e delle dinamiche del potere, Sciascia individua le ragioni del bisogno di creare delle streghe e di bruciarle sul rogo. E le ragioni stanno nell’esigenza di ogni tirannia di creare dei mostri da accusare delle ingiustizie e delle miserie provocate dalla tirannia stessa. Tanto maggiori saranno le ingiustizie e le miserie, tanto più terribili saranno i mostri da offrire in pasto al popolo attraverso la voce della leggenda (o dell’informazione manipolata ad hoc, potremmo oggi dire …). Il mostro o la strega non sono altro che fumo negli occhi, un diversivo, un capro espiatorio, il Male che si oppone al Bene/Stato/Chiesa, finendo per legittimarne la bontà.
“Quell’antico favoleggiare si configurò, venne configurato, come pericolo: per l’ovvia ed eterna ragione che ogni tirannia ha bisogno di crearsene uno, di indicarlo, di accusarlo di tutti quegli effetti che invece essa stessa produce …”
Ed ecco che la ricostruzione di una vicenda accaduta più di quattrocento anni fa, da racconto, diventa inchiesta e analisi spietata e realistica degli artigli del potere e della giustizia.
E, allora, riformuliamo la domanda iniziale: esistono ancora le streghe?
Ebbene, sì. Ma non si chiamano più streghe.
La strega e il capitano, Leonardo Sciascia, Adelphi edizioni, 2026, pag. 76