Recensione di Alessandra Nobile
In una Torino fredda e bellissima, bagnata dalle luci che, la notte, si specchiano nel fiume, è ambientato Il bisogno e la necessità, l’ultimo romanzo di Demetrio Paolin, edito da Tetra Edizioni.
E nero e lucido come le pietre che si nascondono in fondo al fiume sembra essere il destino di Antonio, il cinquantenne protagonista della storia, che all’inizio del romanzo comincia ad avvertire i sintomi di un infarto, la stessa malattia di cui è morto il nonno.
Antonio che avrebbe voluto studiare, ma che la morte improvvisa del nonno, unica risorsa economica della famiglia, costringe ad andare a lavorare in fabbrica, ancora ragazzino.
Antonio che, nel frattempo, si è innamorato di una ragazza, Luisa, conquistato dalla sua bellezza e “tigna nel voler occupare lo spazio del mondo con coerenza e voglia”, l’ha sposata, ci ha fatto due figli ed è diventato un sindacalista.
Eppure, Antonio sembra essere rimasto bloccato a quell’impossibilità di continuare gli studi, e la fabbrica, divenuta per lui necessità imprescindibile, ha tolto progressivamente significato a qualsiasi sua successiva scelta.
“Ogni scelta che ha fatto Antonio non ha nessun significato, gli uomini scelgono una vocazione, un lavoro e, persino, il delitto da compiere. Lui no, non è mai stato così; non ha mai scelto, come quando ha dovuto lasciare la scuola per la fabbrica, perché il nonno è crepato”.
Ma ora che avverte, a qualche livello, che la sua vita è agli sgoccioli, ora che è in crisi con la moglie – perché in ogni amore, prima o poi, una crisi arriva a esasperare le rigidità di entrambi – ora Antonio ha deciso. Ha deciso di invertire la rotta, di rompere la necessità su cui sente imperniata la sua vita, su cui era imperniata la vita del nonno che è morto nel suo orto tra “i fiori degli zucchini dorati nel tramonto” e su cui è imperniata, in fondo, la vita di ogni essere umano.
“Questo destino che ci spinge a fare ciò che dobbiamo fare, edizione straordinaria: l’uomo fa quello che deve e poi muore, questo nei secoli, continuamente muore e continuamente fa, fare di necessità virtù: fare e morire, fai e poi muori”.
E per Antonio l’unica scelta che si va delineando è una scelta estrema, razionalmente pianificata in ogni particolare: la scelta di decidere, finalmente per la prima volta decidere, di diventare, sul piano morale, una persona opposta, opposta a quella che egli è. Questo è il suo modo di frantumare il destino. Questo è il suo patto con il diavolo. Questa è la sua illusione.
Antonio sta male, il braccio gli duole, si piscia addosso senza rendersene conto, ma non può ascoltarlo quel suo corpo che è diventato fragile, intaccato dalla malattia, non può ascoltarli, i bisogni primari di quel corpo, e nemmeno il suo desiderio di essere amato così, per quello che è, nella sua fragilità. Tutto ormai, nella sua vita, è passato sotto il controllo estremo della mente, come se del suo corpo, che va incrinandosi, lui non tenesse conto, non più. Come se la mente non fosse, anch’essa, corpo. Perché è carne e sangue, la mente, e Antonio di questo ha paura.
Eppure, delle aperture ci sarebbero, e la possibilità di spezzare questo meccanismo forse ci sarebbe; Antonio, a tratti, lo sente. Lo sente dopo essersi pisciato addosso, lo sente quando la moglie sta per lasciarlo e lui, allora, le chiede, così, perdono: “Se mi perdoni, ti perdono e nel perdonarti perdono me stesso per ciò che ho fatto.”
Perché il perdono non è mai a senso unico, come siamo soliti pensare, e non è mai una scelta prettamente razionale: mi perdoni e sono a posto, ti perdono e sei a posto. No, il perdono tocca entrambi, è reciprocità, è capacità e coraggio di vedersi l’un l’altro per ciò che si è, anche nelle fragilità di ciascuno: è mente e cuore.
Antonio a tratti lo sente questo, Antonio che “nella doccia lava via il tanfo orribile di piscio con il bagnoschiuma all’aloe, e il vapore dell’acqua calda annebbia il bagno come una sauna, e finalmente s’accuccia, prende la forma di uovo e piange piange piange.”
Sì, a tratti la sente, Antonio, la possibilità di un rapporto diverso con gli altri, ad esempio con il figlio adolescente, Arturo.Come quando lo sta riportando a casa dal mare e “pensa che potrebbe essere il momento giusto per parlare, per dirgli le cose che sono sei mesi che rimanda, che ogni volta gli sfuggono davanti, come se la sua vita fosse condannata a una lucidità così estrema da non poter essere detta: Antonio vede tutto chiaramente, ma le parole in bocca si fanno come un pasticcio.”
E ancora “Antonio vorrebbe giustificarsi, vorrebbe dire quello che ha immaginato o sentito, vorrebbe dirgli: Quando tutto questo è iniziato mi sono pisciato addosso […] Arturo vuoi amarmi così, vuoi lo stesso darmi il tuo amore?, queste parole dovrebbe dire a suo figlio che invece ascolta un povero Scusami di tutto.”
L’ignoto che si apre davanti ad Antonio e che lo terrorizza è questa possibilità di lasciar andare il controllo estremo che pratica su tutte le cose, di lasciarlo andare per aprirsi agli altri. Perché è lì, lì dove abitano le sue emozioni, lì dove abita la sua fragilità, lì dove abita la sua mortalità, che, davanti a coloro che ama, la razionalità delle parole non gli basta più, e la lingua si impasta. Però Antonio ha troppa paura e finisce per scegliere, di nuovo, una strada a senso unico.
Eppure, Antonio lo ha già fatto in passato questo passaggio verso l’ignoto, lo ha già fatto insieme alla moglie, per amore, quando ha concepito la figlia Beatrice.
“ […] posa lo sguardo dallo specchietto retrovisore su Beatrice (il suo sperma che copre Luisa), sette anni (dopo una serata bellissima), la non pensata-cercata (Vieni dentro, vuoi? Voglio) dorme e non sogna, Io papà non sogno mai, sarà grave? No, vuol dire che vivi una bella vita, Hai ragione papà, speriamo che la mamma ti perdona, Speriamo.”
E penso al diavolo che tenta Gesù, penso a quando, sul pinnacolo del tempio, gli dice: se sei Figlio di Dio buttati giù, tanto Dio ordinerà ai suoi angeli di prenderti al volo, perché così sta scritto nelle Sacre Scritture. Questa tentazione del demonio è anche, almeno credo, la tentazione di controllare tutto con la razionalità, senza dover attraversare l’ignoto che la fragilità del corpo porta con sé. Perché anche il corpo di Gesù è, come il nostro, un corpo umano, e pertanto mortale. Ma se sei Figlio di Dio che ti importa del corpo? Tu puoi fare tutto, tu puoi decidere tutto, puoi imporre al Padre di salvarti, puoi cambiare il tuo destino, sembra dire il diavolo.
Mi viene in mente un’immagine che appare nelle ultime pagine: una balena che, sul pontile della nave, viene scarnificata dai pescatori, rivelando la purezza bianca delle sue ossa. Ed è a quel bianco, a quella purezza vuota e priva di carne e sangue, che anela Antonio, per non soffrire. È l’illusione di poter invertire il nostro destino da soli, soltanto con la pura e bianca razionalità. Gesù non ci casca. Antonio sì.
Tutto questo viene raccontato in un romanzo dalla bellezza estrema, una bellezza lirica, dove colpisce, come in ogni opera di Demetrio Paolin, l’uso accuratissimo della lingua, come se ogni parola, ogni frase, ogni segno d’interpunzione, persino ogni lettera del testo non potesse che stare esattamente dove l’autore ha deciso di metterla. Eppure, nulla appare studiato o forzato, e tutto il testo scorre con una naturalezza disarmante.
E mentre con fatica, al termine del testo, stacco gli occhi dall’incanto della pagina, mi chiedo se sia un mago, Paolin o, forse, uno stregone.
Ma poi mi dico che no, non è magia, e nemmeno stregoneria, ma lo studio profondissimo della lingua, unito al talento dell’autore, a creare questa bellezza.
Ne lascio, ancora, un assaggio:
“Antonio guarda davanti a sé, osserva la strada che gli si apre, le piante nere nella notte corrono vicine alle auto, i passaggi a strapiombo dell’autostrada, i paesini che si vedono sull’Appennino ligure sembrano usciti da un presepe, stanno appesi alle rive, e quasi paiono cadere o incombere pericolosamente; il viaggio avviene nel silenzio più totale, e poco per volta il mondo intero, quel mondo che scorre dentro la macchina, intorno, sopra, ai lati di essa, il mondo del cielo stellato limpido, il mondo dei boschi, delle colline nere o blu, il mondo delle altre auto che vanno, vengono, o sono ferme nelle piazzole, il mondo intero, il mondo di Luisa, che starà guardando una serie in tivù, di Arturo e Beatrice che dormono beati nella loro stanchezza, e riempiono la macchina del loro profumo così impregnato di sabbia, salsedine e sole, il mondo di Antonio, tutti questi mondi coincidenti nell’uno che si sgretola in una lunga striscia nera, una lunga biscia che conduce da un posto a un altro e la macchina libera involontariamente i pensieri …”
Il resto consiglio di leggerselo da sé, sempre che gli incantesimi non facciano troppa paura.
Il bisogno e la necessità, Demetrio Paolin, Tetra Edizioni, 2023, pagg. 88
Alessandra Nobile (classe 1978) è diplomata al liceo classico, laureata in psicologia e specializzata in psicoterapia a orientamento psicoanalitico. Ama leggere, raccontare fiabe, cucinare dolci semplici. La torta che le viene meglio è la crostata con la marmellata di albicocche che lei fa con la ricetta che ha imparato, bambina, da sua nonna Lucia, che era fornaia.