Racconto di Marina Mongiovì
Costanza, a ogni contrazione, squarciava il silenzio.
Suo marito, Saverio Galluzzo, era stato confinato in soggiorno; a contare le cementine del pavimento.
Il travaglio era iniziato verso mezzogiorno e la levatrice più esperiente del paese si era precipitata in casa, non appena ricevuta la notizia. Per tutti era Angela la mammana, figlia di Cettina la mammana. Aveva iniziato che era ancora una ragazzina ma, siccome tutti nascevano allo stesso modo, ben presto aveva imparato il mestiere; si rimboccava le maniche e tirava fuori quei piccoli corpi nudi che poi avrebbe visto crescere, giorno dopo giorno, per le vie del paese.
Ricordava il lungo parto che, ventidue anni prima, aveva portato alla luce Costanza, rosea come una bambolina di porcellana. E aveva ben in mente la testa un poco allungata e il viso itterico di un neonato Saverio.
Nonostante i suoi anni, Angela aveva ancora due braccia forzute e un carattere deciso. Arrivata a casa della partoriente diede subito disposizioni alle donne presenti: asciugamani e acqua calda; federe e lenzuola pulite. Aveva buttato fuori in malo modo il futuro padre, che farfugliava in maniera confusa e intralciava il passaggio standosene in mezzo alla camera da letto.
Nascere era questione di femmine, ai maschi non restava che aspettare.
Costanza era una primipara dalla pancia minuta e dal bacino stretto. Ragazza di buona famiglia e buone maniere, occhi bassi sul corso del paese. Era diventata signora, sposando il Galluzzo, e con la sua discreta bellezza e i modi garbati compensava il piglio verboso del giovane avvocato. Di fronte alla maternità aveva gioito come una bambina e, insieme alla madre, aveva preparato un sontuoso e candido corredo. I lenzuolini avevano il ricamo di una A dai colori più tenui; si sarebbe chiamato Antonio, come l’illustre nonno paterno che non avrebbe mai conosciuto.
Saverio apparteneva a una delle famiglie più in vista del paese. Avvocati da tre generazioni, figlio dell’indimenticato onorevole, aveva ereditato, dal padre e dal nonno, una leggera calvizie e la faccia bonaria. Con le mani sudate e i piedi nervosi, si apprestava a diventare padre, dando un altro erede alla dinastia. Ne era certo, la sua Costanza avrebbe messo al mondo almeno quattro chili di Galluzzo.
Il figlio non aveva ancora emesso il primo vagito ma aveva le idee chiarissime. Le scuole alle Orsoline, il liceo Garibaldi e infine i corridoi degli edifici barocchi che ospitavano la facoltà di legge. Avrebbe ereditato l’astuzia del bisnonno Carmelo, le capacità oratorie del nonno Antonio e dal padre una discreta attitudine allo sport. Se il nonno era arrivato alla poltrona regionale, il piccolo Galluzzo avrebbe sicuramente conquistato la capitale.
Che fosse un maschio non c’erano dubbi; i Galluzzo avevano sempre sfornato primogeniti maschi e Costanza aveva una pancia piccola ma pizzuta e, per tutti i mesi di gestazione, una forte acidità di stomaco non le aveva dato pace. La zia Sarina, già al quarto mese, aveva spiegato loro che panza pizzuta e acidità potevano significare solo una cosa: un maschietto.
Quando però Costanza ebbe i primi dolori, Saverio entrò in uno stato di incertezza e confusione. Non sapeva più quale santo nominare e passeggiava nervosamente tra il soggiorno e il corridoio, abbassando gli occhi quando incrociava lo sguardo severo di suo padre Antonio, che se ne stava appeso al muro, dentro una foto in bianco e nero.
La buonanima di Antonio Galluzzo fu il primo in paese a portare la bandiera con il fascio littorio. Fu stretto collaboratore del gerarca Spampinato e conservò, dentro delle teche, i cimeli di quel ventennio di cui andava assai fiero. Nelle vecchie foto di famiglia se ne stava col petto in fuori, tutto ringalluzzito, con la mano sul panciotto e con accanto un piccolo Saverio, serio e impettito.
In prima elementare Saverio era il figlio del fascistissimo avvocato Galluzzo. Dopo la guerra, ebbe l’onore d’essere il figlio del sindaco Galluzzo e, negli anni degli studi di legge, divenne il figlio dell’onorevole Galluzzo. Dopo la laurea pure Saverio si era seduto su una poltrona, al consiglio comunale. La morte improvvisa del padre gli fece ereditare lo studio legale su corso Vittorio Emanuele anche se la sua vera aspirazione rimase la candidatura a sindaco. Non aveva l’arguzia e la scaltrezza del padre ma pasceva grazie al nome, la fitta rete di amicizie e i nostalgici del regime.
Il giorno, dietro le persiane, volgeva al termine, calava il buio sugli agrumeti e i contorni delle colline si coloravano di un cremisi profondo. Una brezza leggera portava un dolcissimo odore di zagara e Costanza latrava.
Coi dolori uterini il suo esile corpo aveva perso ogni contegno; si contorceva, stringeva i pugni, si dibatteva e si piegava come un animale. La sua voce, che era sempre stata flebile e composta, riusciva a far tremare le pareti e i vetri delle credenze. Il dolore sembrava lacerare le ossa del bacino, piegare le vertebre della schiena; non bastavano le bende calde, tantomeno le preghiere della madre e della suocera o il conforto della sorella che di figli ne aveva partoriti tre.
La mammana, lei ne aveva viste tante e non si perdeva d’animo, incitava Costanza a spingere e la creatura a venir fuori. La voce era ferma, lo sguardo duro ma non lesinava carezze alla ragazza allo stremo delle forze. L’intervallo tra una contrazione e l’altra si stringeva, non dava respiro, la carne di Costanza si dilatava e il piccolo Galluzzo scendeva piano verso la vita. Due e tre spinte ben assestate e si riuscì finalmente a intravedere una piccola testa, piena di capelli scuri.
Angela la mammana intimava di non fermarsi; Costanza spingeva più che poteva; le donne della famiglia si stringevano a cerchio attorno al letto; Saverio, nella stanza accanto, portava le mani alle orecchie. Il volto di Costanza era umido di sudore e pianto, il respiro correva veloce, i dolori più lancinanti accompagnati da grida disperate.
Era arrivato il momento e la mammana spinse con tutta la sua forza sulla pancia gravida e Costanza cacciò un urlo con tutto il fiato che le era rimasto. Si affacciò la testa del piccolo Galluzzo e, pochi minuti dopo, arrivò l’ultima contrazione e un urlo straziante che parve attraversare i muri, i vicoli del paese e le fronde degli aranci nei campi.
Seguì un silenzio improvviso e irreale; tutti trattennero il fiato, pure Saverio, sospeso tra una piastrella e l’altra. Solo la mammana non si fermò, tra le cosce di Costanza, con mani veloci e attente, come aveva fatto per una vita intera.
Poi esplose un pianto, acuti singulti che spezzarono quella momentanea quiete.
Alle ventuno e cinquanta di un giorno d’aprile, Costanza diede alla luce ben tre chili e duecentocinquanta grammi di Galluzzo.
Volle chiamarla Angela, come la mammana del paese.
Nel febbraio 2023 esordisce con “Sciara” (Kalòs Edizioni), un libro di racconti che ottiene ottime recensioni sia su web che sui maggiori quotidiani siciliani, presentato in diverse città dell’isola e al Salone del libro di Torino. “Sciara” è selezionato nella cinquina della IX edizione del premio letterario città di Lugnano in Teverina; è finalista al premio internazionale Etnabook; nel gennaio 2024 è scelto dai librai siciliani per partecipare al premio letterario città di Erice, nella sezione giovani.
Accanto alla scrittura, coltiva la passione per la fotografia. Nel 2021 Letizia Battaglia sceglie un suo scatto per una mostra collettiva al Wegil di Roma. Successivamente altre fotografie verranno esposte in mostre collettive sempre a Roma e nel Centro Internazionale di Fotografia di Palermo, all’epoca diretto proprio da Letizia Battaglia.
Nel 2022 ha pubblicato un racconto fotografico dell’opera di Giovanni Verga, “Storie del Castello di Trezza” (Rossomalpelo Edizioni), da cui è nata una mostra personale alla rocca normanna di Aci Castello.