La lista della spesa
Monologo per donna e cellulare
di Loredana Gaudio
Pomeriggio inoltrato, autunno.
Interno casa, soggiorno cui si accede direttamente dalla porta d’ingresso. Mobili moderni, bassi, un divano con un piccolo tavolinetto e sopra un posacenere e un vaso con fiori. Sulla destra si intravede un terrazzo cui si accede da una porta-finestra. A sinistra la porta che introduce alla cucina.
Entra in scena dalla porta principale, scuotendo il capo. Parla al cellulare, mentre mette a posto le chiavi, la borsa, il soprabito, con gesti lenti come di chi ha bisogno di un po’ di riposo per riprendere la giornata. Lascia a terra una busta piena di libri.
Ha circa quarantacinque anni, curata e sobriamente elegante.
Ogni tanto una sillaba, un intercalare, per capire che è al telefono.
Mi ha chiesto a chi somiglia, capisci?
Ma dai!
Ti metto qui, mi fai compagnia e puoi lavorare tranquillo mentre ti parlo.
Si ferma, posa il cellulare sul tavolino in video chiamata.
Da questo momento, nelle pause, si sentirà un vocio indistinto dal telefono che ci darà idea di chi, dall’altro capo del filo, risponde.
S’affaccia in cucina, prende un grembiule che non indossa e che poggia sulla sedia, poi lascia le scarpe in terrazzo e prende le ciabatte, quindi si siede un attimo sul divano, la testa un po’ indietro, inizia a parlare quasi rivolta al soffitto mentre si allunga come per rilassarsi.
Ma subito scatta seduta, protesa in avanti, concitata.
A chi somiglia, signora? Me lo ha chiesto la maestra, oggi pomeriggio, a scuola. Forse perché ha notato che i colori non sono i miei.
Ma davvero, volevo dirle, me lo chiede?
Oggi che i bambini possono essere figli d’altri anche per scambio gameti e camere gestazionali?
Oggi che il numero dei bambini adottati è finalmente significativo?
E lo diceva a tutti eh! e non solo lei, sembrava quasi una parola d’ordine da fornire per qualunque adulto con bimbi accanto.
Oh che bello! Identico alla sorellina, tutto sua mamma, suo nonno, lo zio, il cugino di secondo grado che sta sopra casa mia.
Ma io mi chiedo: e se somigliasse al vostro vicino? Che magari è il fidanzato segreto della mamma? Vi è mai venuto in mente quanto può essere inopportuno e inutile, in un mondo che rotola via in un crescendo di scoperte e invenzioni, cercare somiglianze, appartenenze e discendenze nei caratteri somatici di un individuo?
Si alza, prende l’asse da stiro in cucina e recupera una cesta di panni dall’altra stanza.
Inizia a stirare e parla verso il telefono che è come parlare al pubblico.
Mentre parla stira, si ferma, segue il pensiero con i gesti.
Ma che ci fate nella scuola di mia figlia, dico io?
Perché non è possibile che possiate formulare domande così stupide ai genitori e dare risposte intelligenti a quelle dei bambini.
Cosa le insegnate quando le parlate di cittadinanza?
Che obiettivi vi ponete parlando loro della storia delle religioni, della vita dei popoli che abitano in Paesi dei quali volete conoscere i confini e non i bisogni o ancora meglio i sogni?
Se non siete attenti a questi piccoli particolari nella comunicazione, dando per scontato che tutto il mondo è famiglia secondo le vostre regole, come potete accorgervi della storia personale dei ragazzi che crescono nelle vostre aule, quella che farà di ciascuno di loro un individuo unico e irripetibile?
Che poi, sai, se avessi potuto, senza creare pregiudizi a mia figlia, sarei salita su una delle cattedre nelle aule aperte e avrei tenuto una lezione io sul dietro le quinte dei valori più sacri della nostra società, magari a porte chiuse, solo per adulti, lasciando ai bambini per quanto possibile ancora la speranza che si viva per crescere e non solo per invecchiare.
Avrei potuto parlare, ad esempio, degli uomini che incontro per i miei studi: gentili, generosi, affidabili, socialmente vincenti.
Quelli cui sembra che non manchi nulla.
Che non diranno mai alla madre dei loro figli che si perdono ogni tanto nel pomeriggio tra le gambe della segretaria, dell’avvocata che segue il recupero del credito di quella multinazionale (qui imita la voce dell’uomo che immagina stia parlando a casa) che ci deve tanto, della fisioterapista che al supermercato, con un solo sguardo, ha capito il problema annoso delle loro vertebre lombari ed è stata così gentile da offrirsi per un consulto gratuito.
Perché loro la madre dei loro figli non vogliono turbarla o ferirla.
Perché vogliono fare di tutto per renderla felice.
Perché fanno tutti così da sempre per salvare apparenze e relazioni utili e perché dovrebbero essere diversi proprio loro?
Si ferma, mette a posto il ferro da stiro e i panni. Pensa, tace, poi come se avesse avuto una rivelazione.
E sarà per questo che io tanta gente felice non la vedo, intorno, né ho notizia che ci siano stati tempi in cui la felicità delle persone è stata resa evidente da un qualche indicatore di benessere emotivo.
Ma mica questa cosa riguarda solo gli uomini, eh.
Noi donne abbiamo imparato presto a essere pari in questo: la libertà senza verità.
Una bella facciata senza increspature.
Senza neanche capire davvero, a volte, chi abbiamo davanti, le sue paure, le sue debolezze, la sua miseria, ciò che in lui o in lei non è amabile.
Due, tre, quattro vite parallele in cui frammentarsi per sopravvivere senza che l’altro se ne accorga o voglia accorgersene.
Perché la verità è pesante, interroga, mette in crisi con sé stessi prima che con gli altri. E per amare qualcuno con tutti ma proprio tutti i suoi limiti in vista ci vuole coraggio, forza ed una passione che continui ad ardere anche quando il vento della rabbia rischia di spegnere tutto.
C’è un mobile bar, si versa da bere.
Sento dire spesso una frase, quelle volte che la coppia si ricompone.
“Alla fine io torno da lei, lui.”
La cosa più triste è questa: sembra un merito essere lì quando l’altro torna, ma non è così. Significa non andare avanti, non crescere, restare a tenere aperta la porta di una gabbia di cui ci si illude di avere le chiavi come se l’altro ci potesse appartenere a guisa di un oggetto. Senza pensare che ciò che alberga nel cuore e nella mente dell’altro ci sfuggirà sempre se non sarà lui o lei a volerlo consegnare, a voler dividere con noi il suo sentire, la sua verità.
Si ferma per un po’ dallo stirare.
Prende un panno per la polvere e pulisce un ripiano della libreria, facendo spazio mentre sistema i libri che ha acquistato, disponendoli in ordine di altezza e colore.
Che poi è il vero legame degli amanti: la complicità.
Quello che manca, in molte relazioni.
Potersi fidare d’essere reciprocamente se stessi ed essere felici anche se un po’ delusi, turbati, feriti.
Per questo gli amanti funzionano, perché non hanno facciate da salvare.
Si ferma, guarda uno dei libri con cura, lo ripone sul tavolino basso.
Un amante è il bisogno di essere nudi, veri, di essere amati nell’errore.
È l’amore, come dovrebbe essere.
Quello che manca.
Non qualcuno con cui fare sesso.
Quella è un’altra cosa. Roba da ginnastica da camera, niente per cui valga la pena essere gelosi.
Perché un uomo, una donna, possono fare sesso nello stesso giorno anche con più persone diverse, ma se dovranno parlare dei loro dubbi, delle loro speranze, di ciò che li fa ridere o piangere, lo faranno una volta soltanto. Ed è lì che resterà il loro cuore, anche quando sembra che siano con noi, nel nostro letto, a gabbia chiusa.
Il cuore resta dove trova quello che manca.
E non è che di chissà cosa è necessario che si parli, eh!
Per due che si dicono tutto e che sono in grado di reggere il peso di una completa intimità, tutto contribuisce a crearla, anche fare la lista della spesa.
Va in cucina, ne esce con un bicchiere di succo, un block notes, una penna e qualche depliant del supermercato.
Si siede sul divano, beve il succo e spunta sul giornale le cose da comprare, riportandole sul notes.
Tra una frase e l’altra pensa, segna, sfoglia.
Sì, la lista della spesa.
Una delle cose più noiose e banali della vita quotidiana in due. Eppure, forse, quella che più di tutte le altre ne rappresenta la cartina di tornasole.
Dunque pane, biscotti, latte, caffè.
Latte senza lattosio per lei che me lo ricordo come stava male quando ancora non sapevamo e poi scoprire che bastava eliminare quello zucchero e così abbiamo fatto e adesso va molto meglio.
E pane, no, dai, che se abbiamo tempo lo faccio io, quello ai cinque cereali, ti va? Prendiamo il necessario e proviamo insieme?
Sì, mi piace vederti che impasti, trasformi.
Vediamo cosa serve ancora, dimmi cosa manca.
Il detersivo per la lavastoviglie, sì!
No, non voglio che lavi i piatti tu quando siamo insieme. Non è che sono cose da femmina, è che per i piatti c’è tempo e per stare insieme è sempre meno.
E allora al diavolo i piatti e vieni sul divano e abbracciami.
Poi ci penso io a caricarla. Prendiamo questo (lo mostra verso il cellulare, indicandolo sul foglio con la penna), che è più efficace sullo sporco del giorno prima.
Sì, ho segnato anche i guanti.
E il prodotto per l’argenteria. Che poi è bellissimo usarla finalmente. A casa dei miei era proibito.
A che serve avere qualcosa di bello di cui non puoi godere me lo spieghi?
È per questo che noi abbiamo fatto il patto di usare tutto ciò che abbiamo contro ogni logica e prudenza, ricordi?
Perché è per noi, ce lo meritiamo.
Mamma, se penso alla faccia dei miei quando m’hanno visto portare via le lenzuola buone per prime! Pare che fossero state ricamate apposta per quando fossimo tornati a casa dall’ospedale o comunque lungodegenti per una malattia.
Ma ti rendi conto? Per essere belli ed eleganti per chi eventualmente ci avesse fatto visita.
E le asciugamani con la frangia annodata a mano per il dottore che viene a visitarci.
E per noi quelle semplici, come se noi non avessimo diritto alla bellezza anche in tempo di salute.
Sulle asciugamani però mamma è stata più indulgente… magari perché io un dottore l’avevo sposato (ride).
Senza dubbio è importante conservarne la gioia anche ai ragazzi, ma non a costo della nostra. Sarà più importante che ci vedano felici e cerchino di esserlo anche loro e non che abbiano una tazzina di porcellana che ricorderanno in un mobile, senza che ne abbiano anche il ricordo mentre era nelle nostre mani un momento di festa.
(Si alza e riprende a stirare)
Sì, eh? Lo so che sei d’accordo: noi diamo troppo peso e troppe responsabilità alla vita dei giovani.
Affidiamo loro un futuro che carichiamo di tante, tante attese.
Addirittura li prezziamo.
Abbiamo il coraggio di dire che la vita vale molto di più quanto più si è giovani. Perché si ha tanto futuro avanti mentre invece i vecchi non ne hanno.
Ed è una cosa sbagliatissima. Perché noi del futuro non sappiamo nulla.
Magari quel giovane lo sprecherà senza riserva.
Invece del passato sappiamo tutto.
E un vecchio può avere un passato magnifico, pieno di persone per le quali ha rappresentato tanto, alle quali ha cambiato la vita.
Noi pesiamo la vita come se fosse merce con un corrispettivo economico.
E così un ragazzo vale più di un vecchio perché si valuta ciò che potrà dare.
E così quello che è stato dato non ha più valore.
Bella riconoscenza.
Mette a posto l’asse da stiro e la cesta, porta il bicchiere in cucina, esce sgranocchiando un biscotto, controlla la lista, sfoglia un paio di pagine.
E anche se pensi che non c’entra nulla ho ricordato che manca lo zucchero (Ride).
E sì, lo so che hai capito perché m’è venuto in mente.
Lo sai che quando parlo di queste cose sento un senso d’amaro in gola.
Così mi premuro di avere una buona scorta di zucchero per i nostri biscotti scacciapensieri.
L’ho scritto anche nel romanzo, sai? (Con voce impostata)“nelle notti difficili, quando impasto ansie e delusioni e cuocio a fuoco lento le attese incompiute”.
A proposito, vorrei che tu leggessi il capitolo che sto ultimando: voglio sapere se ti piace, se regge la storia, se sono chiare le voci.
E farina, sì, e uova.
Ricordo tua mamma che diceva che con zucchero, farina, sale, patate, uova, olio e legumi si può stare tranquilli in casa.
Oggi noi rischiamo di andare in ansia se mancano quinoa, farro e bistecche di soia. E le vitamine e gli antiossidanti e le diete dissociate, proteiche, chetogeniche.
Loro erano pieni di frutta e verdura.
Erano il cibo dei poveri.
Mancava la carne, il pesce. Ma anche il cancro, se ci pensi.
E non solo perché tanti morivano senza sapere perché.
Sì, certo, anche perché si viveva di meno; non c’era molto tempo per invecchiare e degenerare, ma soprattutto perché si mangiava meno e meglio.
Comunque, dovremmo prendere un po’ di pesce.
Lo scrivo.
Adesso ti lascio, prendo Sara, la lascio a basket e vado in palestra.
Tu che fai?
Sì, va bene, ci sentiamo dopo cena.
Mi manchi anche tu. Torna presto.
(Rivolta verso il pubblico, verso un interlocutore immaginario)
A chi somiglia signora, vuole saperlo davvero?
A chi compila la lista della spesa con me.
A chi sa quali sono le cose che mancano.
Loredana Gaudio è una bancaria per professione e biologa specialista in patologia clinica per formazione e passione. Ha scritto un libro di favole e racconti per blog e per una raccolta; le piace realizzare miniature, dipingere, lavorare ai ferri e all’uncinetto, leggere, andare a teatro e in sale da concerto. Ama, molto.