Tutta colpa del pirtùsu

Sine Pagina -Tutta colpa del pirtùsu
Immagine di ©Antonella Perrotta

Racconto di Antonella Perrotta

Quando nacque, come da tradizione, la vestirono con la cammìsa della fortuna che zzì Catrina aveva ricamato apposta. Era di un cotone leggerissimo, di un bianco candido come quello delle penne di ‘na palummella, ricamato con fiorellini rosa sul davanti.

Bedda, in carne, ma con le guance livide e arrussicate per lo sforzo di uscire dal ventre, non sgusciò fuori come un’anguilla, la criatura. Esterina, la vammàna, faticò assai a spingere col braccio sulla pancia di Luisella, sua madre, per farla venire fuori, mentre Luisella sudava e gastimava pure l’anima dei morti, giurando a se stessa che un secondo figlio non l’avrebbe messo al mondo manco pagata. Che Gerardo, suo marito, si cunsasse col pensiero a ‘sta cosa e stesse attento in futuro. Molto attento.

Pure contro di lui Luisella gastimò ché, tanto, se ne stava comodo nell’altra stanza, seduto in poltrona a fumare una Nazionale senza filtro, solo ansia, ma niente dolore. Quello, il dolore, tocca sempre alle femmine.

La pensava uguale la vammàna. “Eh, a nascer fimmina si perde sempre!” esclamò quando guardò in mezzo alle gambe della criatura sperando di trovargli il pendaglio che non c’era.

Non appena Luisella riuscì a prendere fiato, guardò bene sua figlia e si preoccupò nel vederle quel colorito violaceo.
“Mo si consa. Le passa, tranquilla” le disse Esterina e lavò la picciridda. Poi, la vestì con la cammìsa della fortuna e fece per porgerla a sua madre affinché la attaccasse al seno.

Fu allora che vide il pirtùsu.
Stava proprio sul davanti della cammìsella, sul petto della criatura in direzione del cuore. “Malu signu”, pensò. “Però, è ‘nu pirtùsu piccolo piccolo, quasi manco si vede. Quindi, malu signu, sì, ma neanche tanto” disse tra sé.
“Come la chiamiamo, eh?” chiese a Luisella fingendo indifferenza, il dito proprio sopra il pirtùsu per ammucciarlo.

“Delicata” le rispose Luisella e prese in braccio la bambina.
Il pirtùsu non lo vide subito. Era picciriddu, in effetti, e lei troppo stanca pure per essere emozionata. L’emozione per quella primigenia la lasciava tutta a Gerardo che, sentiti i vagiti, aveva bussato alla porta della camera, aveva sporto la testa all’interno e pronunciato “Permesso?” con voce tremante.

“Trasa” gli aveva detto la vammàna e lui era trasuto con le gambe che gli annacavano per l’emozione. Mo stava là, davanti al letto matrimoniale, contemplando con gli occhi lucidi sua figlia che provava a succhiare dalla minna gonfia di latte di Luisella.

Luisella lo guardò male. Sì, ai masculi tutte le fortune.
Accarezzò il capo di sua figlia, i capelli sottili ancora umidi, le guance ancora arrussicate e sorrise. Ma gli occhi le andarono al pirtùsu sulla cammìsella e cacciò un grido manco avesse visto lu diavulu in persona. Immaginò che, da quel pirtùsu, proprio lu diavulu avrebbe potuto colpire, sfuggendo alla protezione del tessuto sano. “‘Sta cammìsa va levata e pure subito che, altro che fortuna, mala sorte porta!” urlò, davanti agli occhi l’immagine del diavulu che volava per la stanza con le sembianze di un calabrone.

Ma un’altra cammìsa non c’era. Non subito, almeno.
Fra una mezz’oretta, il tempo di darle una stirata, ché strapazzata la voleva vestire la picciridda?
Quella mezz’oretta poteva significare tanto oppure poco, ma il pirtùsu era piccolo, forse tanto male non portava, forse lu diavulu manco l’aveva visto e non l’avrebbe visto mai. Insomma, avevano tempo. Così, le rispose Esterina mentre si affannava a cercare un’altra cammìsa, pure se il compito suo l’aveva già bello che assolto e quella non era faccenda che avrebbe dovuto riguardarle.

Luisella ebbe altri figli, tutti maschi. Gerardo non s’era stato accorto, non s’era stata accorta manco lei e, come dice il detto, dove c’è gusto, non c’è perdenza.
Allevò Delicata con l’incubo del pirtùsu sulla cammìsella. Orecchini di corallo, cornicello e croce benedetta al collo, sale grosso nella tasca del misale avrebbero dovuto parare i colpi del diavolo. E difatti, li pararono. Sua figlia arrivò a vent’anni bedda e dal colorito sano, dimentico del rossore e dello sforzo del venire al mondo.

Si fidanzò pure. Lui si chiamava Luigi, era un giovane di forte costituzione, garbato e galante. Faceva il falegname, la stessa professione del padre di Cristo e, se il Padreterno aveva scelto un falegname come padre, pure se adottivo, per suo figlio, voleva dire che i falegnami non potevano essere una malarazza. Delicata n’era innamorata e lo sposò col velo sul capo e il cuore che le batteva all’impazzata una domenica di fine giugno.
Pure Luigi pareva felice.
Pure Luisella lo era.
Per il matrimonio e per aver fricatu lu diavulu.

Dopo la funzione in chiesa, festeggiarono il matrimonio con una tavolata allestita all’aperto. L’aria era mite, il grano splendeva nei campi e le cicale cantavano instancabili come natura voleva. Delicata indossava l’abito bianco che le fasciava la vita sottile e metteva in evidenza il seno abbondante che la scollatura lasciava un poco scoperto. Mangiò, bevve, ballò, si tolse pure le scarpe che le facevano male, si distese sotto a un albero di fico dal tronco antico per riposare.

Fu lì, col capo piegato di lato, a trovarla Luigi.
Non notò il nido di calabroni sul tronco del fico e neppure fece caso a quell’unico calabrone che ronzava intorno come a godersi la scena.
Pensò che Delicata dormisse e la scosse per svegliarla ma, poiché continuava a starsene immobile, le prese il viso fra le mani. Era livido e arrussicatu e lo era pure il petto, lasciato scoperto dalla scollatura del vestito nuziale. C’era la puntura di un calabrone vicino al cuore. Per Delicata era stata mortale.

Luigi levò un grido disperato e cominciò a gastimare contro la malasorte che le aveva levato la sposa prima ancora che potesse godersela. Al grido, accorsero tutti gli invitati, Luisella in testa alla processione.
“Tutta colpa di lu pirtùsu!” esclamò nel vedere sua figlia esanime, mentre il calabrone s’era fermato su una pampina di fico e osservava la scena. Luisella lo cercò con lo sguardo, era certa fosse stata colpa sua. La visione che aveva avuto il giorno in cui aveva messo al mondo sua figlia non se l’era scurdata. Ma non lo vide.

Lu diavulu non s’era fatto fregare. Aveva trovato Delicata. Mezza ‘mbriaca di vino e di felicità, mezza addormentata alla frescura del fico.
Il pirtùsu come fosse ancora lì, sulla cammìsella.

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Chi sono

Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.
Se ti va, puoi seguirmi sui miei profili social.

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Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.

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