I Petardi della Ginestra. Una strage, poche verità

Sine Pagina - I petardi della Ginestra. Una strage, poche verità
Opera di Mario Perrotta, per gentile concessione dell’artista.©Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata

Racconto di Angela Formaro

Il dondolio del carretto al ritorno dal duro lavoro nelle terre, insieme al canto delle donne, cullava il mio sonno.

Mi svegliavo all’alba insieme ai miei sei fratelli.

I due più grandi seguivano papà nei campi, gli altri quattro rimanevano con le donne anziane del paese che erano le nonne di tutti. Nessuno di noi, quindi, aveva solo quattro nonni e questa era una vera fortuna per tutta la comunità. Gli anziani erano la memoria del luogo, tramandavano mestieri, storie e racconti che erano un misto di realtà, fantasia e tradizione. Le nonne erano molto abili a liberare le teste dei carusi sempre infestate da quegli odiosi insetti, amici stretti della povertà.

Ero la più piccola di casa, il mio papà aveva voluto “la fimmina” a tutti i costi e così, quando al settimo tentativo era stato il mio turno, contro la volontà e le usanze del paese che avrebbero voluto mi si desse il nome della mia nonna paterna Rosalia, papà stesso decise che mi sarei chiamata Settimia.

Quando il tempo lo consentiva seguivo nelle terre la mia mamma, vi erano tanti altri bimbi e alcuni succhiavano ancora il latte dalla tetta della propria madre. Alcune donne avevano interrotto il canto e bisbigliavano tra di loro, dei bimbi incuriositi guardarono le proprie mamme che, incrociando il loro sguardo, li rassicurarono con il cenno del capo, invitandoli a continuare i loro giochi. Gli occhi di una mamma nascondono bene sempre le preoccupazioni e il dolore ai propri figli. Parlavano della festa che ci sarebbe stata l’indomani alla Portella e la comare Mela disse che in giro non erano d’accordo per quella manifestazione. Allora, qualcuna rispose che era una festa e non una manifestazione, qualcun’altra rimarcò che si andava per entrambi i motivi e che era inutile stare lì a nasconderli. Ci fu chi disse, per sdrammatizzare, ma poi non tanto, che era anche un buon motivo per mangiare qualcosa. A quel punto la comare Mela le freddò tutte, riportando la frase di quella brutta gente che in giro diceva che i lavoratori alla Portella “ci sarebbero andati cantando e sarebbero tornati cacando.

Continuai a pensare a quelle parole, non mi sembrava avessero un significato particolare, eppure le altre donne la zittirono e si fecero il segno della croce.

Finalmente arrivammo a casa, un’umile abitazione composta da una grande stanza con le pareti sostituite da tende divisorie che dovevano, in qualche modo, preservare l’intimità dei nonni paterni e dei miei genitori dal resto di noi carusi che dormivamo tutti in unico letto. Mamma Lucia stava preparando qualcosa da mettere in tavola. Arrivò papà, si tolse gli stivali che vennero subito presi dal più grande dei miei fratelli. Mimì aveva il compito di pulirli e riporli vicino alla porta, pronti per l’uso del giorno dopo.

Papà salutò ognuno di noi come faceva sempre al suo arrivo, chiamandoci per nome, quasi come a fare l’appello e rassicurarsi che ci fossimo tutti. Ma quando si avvicinò a mamma per baciarla, lei lo scostò con la mano.

Turi, sai cùosa ricono ppi la festa ri rumani? Chi nun jè sicuro jìri” disse mia madre.

Ancùora ccu chista stuoria DONNA?”.

Mio padre, quando era arrabbiato o voleva ristabilire i ruoli in famiglia, le si rivolgeva chiamandola DONNA. Quando, invece, la interpellava in pace usava l’appellativo di MOGLIE.

Mamma mise in tavola i piatti della minestra, si sedette accanto a lui e non toccò cibo. Era sempre l’ultima ad andare a letto per rassettare e lasciare qualcosa di pronto per il giorno successivo, quella sera la sentii parlare a lungo con la nonna.

Nora mia tà arricurdari ca a paci rintra u liettu si faci.

Poi mamma si coricò accanto a papà ed io, nel lettone insieme a loro, sentii che la chiamò moglie. Così capii che la pace era nell’aria. Contenta feci la preghiera della notte, giusto in tempo prima che mi accogliesse il sonno.

La mattina seguente ci svegliò papà, facemmo colazione tutti insieme. Noi carusi bevemmo il latte appena munto della capretta e mangiammo del pane duro, ogni tanto avevamo la fortuna di ricevere anche una noce a testa. Lui come ogni mattina mangiava delle sarde sotto sale con un tozzo di pane, mentre mamma prendeva solo del pane e ogni tanto del latte, ma solo se ne avanzava. Papà era allegro, ci disse che era una giornata particolare perché finalmente si poteva celebrare la festa dei lavoratori e che gente cattiva, per qualche tempo, non aveva voluto più che si facesse. Ora però le cose stavano cambiando e da lì a poco avremmo avuto le nostre terre da coltivare, senza “jettari u sancu ppi ù patruni”, disse.

Mamma fu silenziosa per tutto il tempo. Sistemò i fratelli che dovevano rimanere con le nonne e preparò gli altri due che, papà aveva già deciso, sarebbero andati con lui in quanto più grandi. Quando furono pronti per uscire e andare alla festa, mamma si mise davanti alla porta sbarrandogli l’uscita con il suo corpo. “O vegnu puri iu oppure …”e si toccò il grembo prominente. Parlò senza abbassare lo sguardo e sostenendo quello gelido di mio padre.

Mu riciva to patri chi avivi a tiesta dura, un ti avivi a maritari, zitella avivi rimaniri.

Uscimmo tutti e cinque, papà aveva ceduto. Arrivammo in una grande vallata circoscritta dai monti, papà rivolgendosi ai miei fratelli, li indicò come il monte Kumeta e il Plavet. Non si girò mai verso mamma e la distanziava volutamente sempre di qualche metro, c’era molta gente, non ne avevo mai vista così tanta.

L’aria di festa aveva l’odore di ribellione, di povertà e di miseria, ma anche di tanta speranza.

C’erano donne e bambini, uomini in gruppo che discutevano, ridevano e qualcuno cantava. Parlavano di un brigante che era amico dei contadini e del ministro calabrese che si stava battendo per fare avere le terre incolte e che già per sfamare la povera gente si era inventato “i granai del popolo”, costringendo gli agrari a dare il raccolto a prezzi contenuti. Uno di loro disse che il vento stava cambiando e dopo le ultime elezioni finalmente si cominciava a vedere rosso e forse ci si sarebbe potuti liberare dagli americani che erano venuti come liberatori, ma che, a conti fatti, erano peggio degli oppressori.

Un signore salì su una Pietra e cominciò a parlare e si fece il silenzio attorno, fu a quel punto che pensai che la festa fosse iniziata sul serio, perché cominciarono a sparare dei mortaretti. A un tratto la gente cominciò a scappare, c’erano corpi riversi per terra e tanto sangue, i miei due fratelli furono affidati da papà ad un suo amico, e venne a cercarci. Quando ci vide, gli occhi gli si riempirono di lacrime, contento di averci trovate allungò la mano verso la mamma e cercò di coprire il suo corpo da quelle raffiche di proiettili che non si riusciva a capire da dove venissero. Fu a quel punto che qualcosa esplose dentro di lei, dove io pensavo di essere al sicuro.

Il brigante, lo Stato, gli americani, tutti avevano tradito, con quegli oltre ottocento proiettili esplosi su una folla pacifica e indifesa, che si era riunita per festeggiare e rivendicare un futuro migliore.

Papà cercò di proteggere quel corpo ormai inerme e la sua settima figlia che aveva tanto desiderato. Prima di essere colpito anche lui, baciò mamma sulle labbra e le sussurrò queste parole: “Nun avìa raggiuni ppi nenti tò patri, tu t’avìa a maritari ppi fari i mia ‘n omu veru… MOGLIE MIA”.

Chiusero gli occhi insieme e in pace.

E quel senso di pace, nonostante tutto, aleggia ancora oggi in quel luogo, dove le pietre riportano i nomi di chi ha perso la vita per lottare per un proprio diritto e contro lo sfruttamento, per poter mangiare e sfamare i propri figli e per la propria libertà.

Angela Formaro, calabrese, maturità classica e laurea in Scienze Politiche, è un Agente della Polizia di Stato. La passione per la scrittura e la voglia di mettere a disposizione la propria esperienza lavorativa la portano a scrivere e pubblicare storie di violenze e maltrattamenti su un blog per “La casa delle donne”. Nel 2023 ha partecipato all’iniziativa del gruppo indipendente “Viola 40” per la realizzazione di un Calendario laico attraverso il quale, con un misto di grafica e scrittura, si vuole intercettare la follia di certi eventi delittuosi. “I petardi della Ginestra”, insieme a“La bella e la bestia” dedicato a Maria Chindamo e a “Macerie di Valori”, intervista immaginaria a Pier Paolo Pasolini, è stato inserito nel detto Calendario e, rimanendo nella disponibilità dell’autrice, viene dalla stessa offerto gratuitamente al blog Sine Pagina per la pubblicazione, fatto salvo ogni diritto d’autore e correlato. 

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Chi sono

Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.
Se ti va, puoi seguirmi sui miei profili social.

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Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.

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