Racconto di Antonella Perrotta
Il mare è placido, dormiente, liscio come una carezza. Si trascinano lenti i passi per le strade, mentre il sole picchia sull’asfalto e sul cemento dei palazzoni a più piani che le costeggiano.
Quanta vita a morsi.
Il tempo di una stagione estiva colta ancora una volta prima del rientro al lavoro.
Accedo da un cancello aperto in un ampio cortile condominiale circondato da fabbricati. Mi viene incontro il portiere: porta un cappello di paglia con le falde, la maglietta è madida di sudore. “Avvoca’, l’appartamento è quello” dice e indica con la mano le finestre di un quarto piano. “Gli infissi se li sono arrubbati” aggiunge, notando il mio sguardo un po’ perplesso.
Mi accompagna alla porta d’ingresso dell’immobile, mentre l’ufficiale giudiziario mi raggiunge trafelato insieme al fabbro che la butta giù in un attimo. Non è blindata, per fortuna, cede subito. All’interno, oltre agli infissi, mancano i sanitari, le porte e persino le marmette alle finestre e ai balconi.
Si sono arrubati pure quelli.
“Si pignora oggi?” fa una signora distinta che esce dalla porta dell’appartamento di fianco trascinando un passeggino. “Che gente quella!” esclama e si allontana scuotendo la testa, ma sembra non essere particolarmente turbata. Abituata, anzi.
Siamo in un paese della Calabria dove la costa se l’è mangiata il cemento e il mare entra dentro le abitazioni.
Chi abita stabilmente qui deve fare i conti con molti avventori rapaci. Popolano le spiagge e le strade e le case, vi si annidano, le risucchiano nel loro squallido mondo, le aggrediscono, saccheggiano, deturpano, involgariscono, lasciano i debiti, ché neppure le case hanno finito di pagare e sono insoluti i mutui bancari contratti per acquistarle. Gli appartamenti vengono affidati a custodi giudiziari e, forse, qualcuno ne acquisterà uno all’asta, rallegrato di aver fatto un affare di cui si pentirà, mentre un po’ di vita ruota intorno, mesta, dimessa, affaticata, rassegnata, propria di una stagione sempre più corta e sempre più scialba.
Poi, i rapaci se ne vanno. Non si fanno più vedere e neanche rintracciarli risulta facile, all’anagrafe risultano trasferiti, dove non si sa, a risucchiare l’anima di qualche altra spiaggia su cui smorzare i bollori estivi, sfuggendo ai creditori e alle banche.
È così, ormai. Da anni.
Il mare saprà ancora essere placido, dormiente, liscio come una carezza. Il sole picchierà forte sull’asfalto e sul cemento. Altri passi si trascineranno lenti per le strade.
La vita sarà un mozzico sempre più piccolo, finché non rimarrà più nulla da mordere, di cui cibarsi e consolarsi e bearsi.
La stagione, che dovrebbe risplendere di bellezza, di novità, di spensieratezza per alcuni, di opportunità per altri, di comunanza e di armonia, finirà per essere risucchiata dalla decadenza.
Chissà cosa rimarrà di questo posto e cosa ne sarà di questa comunità ormai consapevolmente derubata di tutto, con la rabbia in un ventricolo e la rassegnazione nell’altro.
Mi allontano, salutando il portiere che si asciuga il sudore dalla fronte con la mano, bestemmiando contro la calura infame, il lavoro sottopagato, la vacanza di cui non ha mai goduto. La donna col passeggino sta seduta sotto un pino marittimo nel cortile.
Sorride a suo figlio.
Sa già che andrà via per il mondo con la salsedine sulla pelle e la terra, la sua, che gli scivola via dalle dita.
Mentre il mare resiste.
Già pubblicato su BorderLiber