Era un pomeriggio che la pioggia veniva giù a torrenti.
Teresa stava spolverando la vetrina dell’ospedale delle bambole quando si accorse della figura ferma sotto il diluvio, gli occhi fissi su di lei. Incuriosita, aprì la porta. “La posso aiutare?” chiese, urlando per sovrastare gli scrosci. “Insomma, entri o si buscherà una polmonite”.
L’uomo chinò il capo, togliendosi il cappello per poi sbatterlo sul fianco prima di entrare nel negozio. Chiusa la porta, Teresa lo invitò a seguirlo e fu solo quando gli ordinò di togliersi il cappotto e spiegarle il motivo della sua presenza che questi tirò un profondo respiro e disse “Grazie, e mi scusi.” La sua voce, risalita da un abisso, aveva il suono della pietra e l’odore del sangue. Il vestito era ancor più liso e malmesso del paletot, cosparso di rammendi grossolani come vecchie cicatrici. “Non ho soldi per pagarla” disse, sistemando paletot e cappello su una sedia.
“E per cosa dovrebbe pagarmi?”
“Per questo” spiegò lui, posando una busta sul bancone da lavoro. Dentro c’era una bambola di cartapesta e una testa piena di ricci corvini; le braccia snodate erano di legno, scheggiato e sporco ma ancora integro. Gli snodi funzionavano e le mani erano intere, così come normale era il movimento degli occhi. “Dicono tutti che lei è la più brava.”
Teresa posò lo sguardo sui due moncherini che un tempo erano state le gambe. “Sarò anche brava” rispose, “ma non faccio miracoli.”
L’uomo fissò la bambola per diversi istanti. “E’ tutto quello che ho: se perdo anche lei non mi resterà al mondo una ragione per vivere.” La luce del laboratorio scavava profondi solchi sul suo viso. “Se non ci riesce lei che è la migliore, non ci riuscirà nessuno. Ma non ho un soldo per pagarla.”
“I soldi non sono un problema, signor …”
“Russo” rispose lui, troppo in fretta e abbassando per la prima volta lo sguardo.
Un nome falso, senza dubbio, ma che importanza aveva? Dopo tutto non ci sarebbero stati documenti da redigere, a parte forse la ricevuta per un lavoro che avrebbe fatto gratis. Perché ci avrebbe provato, ovviamente. Dopo mesi trascorsi a sostituire occhi o a smacchiare vecchia plastica, il pensiero la stuzzicava. Stava già lavorando alle possibili soluzioni mentre riponeva la bambola nella busta. “Proverò a ripararla, ma non le posso promettere nulla. E ci vorrà del tempo.”
Il viso dell’uomo si contrasse in una smorfia di dolore.
“Non ho altro al mondo che lei.”
Indossato il paletot e preso il cappello, seguì Teresa fino alla porta.
“Come si chiama la bambola?” gli chiese.
“Mollichella. Così la chiamano tutti perché è bianca, rotonda e piccola.” Ciò detto, si voltò sparendo oltre l’angolo di una traversa.
Rientrata in bottega, Teresa non provò nemmeno a riprendere le pulizie: sedutasi al suo bancone, inforcò gli occhiali da lavoro. “Allora, Mollichella,” disse tirandola fuori dalla busta “dimmi un po’ dove ti fa male.” Non si era sbagliata.
Quella bambola era una sfida.
Russo passava ogni giorno, fermandosi davanti alla vetrina in attesa. Il restauro poneva un unico problema: ridare a Mollichella ciò che le era stato così brutalmente strappato. Per prima cosa ripianò i moncherini, quindi passò alla ricerca delle protesi. Bottega e magazzino (e per la verità anche buona parte del ripostiglio di casa) traboccavano di parti di ricambio ma trovare due gambe della stessa grandezza e dello stesso materiale, senza contare il colore, non sarebbe stato semplice. Alla fine di una cernita estenuante, sul bancone erano allineate una ventina di paia di gambine da bambola. E ogni volta che guardava verso la strada vedeva Russo immobile, in attesa. Trovato il paio giusto, restava da adattare le gambe ai moncherini. Un lavoro di precisione infinita, ma Teresa riuscì a ottenere due protesi precise e ad incollarle, restituendo a Mollichella la sua dignità di bambola; vederla stesa sul bancone, le braccia allargate, il sorriso radioso e le gambe nuove la commosse e la sua prima reazione fu di uscire in strada e trascinare dentro un Russo visibilmente ansioso.
“Non è meravigliosa? Domattina torni qui e le restituirò Mollichella guarita e con un vestito nuovo!” Non era obbligata a farlo, giacché Russo gliela aveva portata completamente nuda, ma aveva già in mente cosa metterle addosso per esaltarne la bellezza.
“Non ho soldi, però” le ricordò Russo, ma lei lo cacciò fuori con scherzosa brutalità, ordinandogli di tornare il mattino seguente.
Mollichella era seduta sul bancone, tutta contenta delle sue nuove gambe e del vestito. Teresa le aveva cucito addosso una camicia candida con inserti di raso rosso e un fiocco al collo dello stesso colore. La gonna, rossa anch’essa ma di velluto, aveva bottoni dorati disposti in due file e ciuffetti di filo bianco all’orlo. Ma ciò di cui andava più fiera erano le scarpine di vernice nera con la fibbia dorata e le calzette bianche, tenute ferme da una striscia di rafe e con due bellissimi pon pon. Quando Russo entrò nel negozio e la prese in braccio, cominciò a piangere lacrime silenziose. “E’ tutto quel che ho” ripeteva, questa volta con un tono meno tragico.
“Le vado a prendere una scatola per trasportarla.” Al suo ritorno, Russo e la sua Mollichella se n’erano andati. Sul bancone, al posto della bambola, trovò un pezzo di carta e una sola parola scritta a mano con grafia insicura.
Grazie.
Teresa non si affezionava alle bambole, ma fissando il bancone dove fino a pochi minuti prima aveva tenuto la bambola, si rese conto che questa volta era diverso.
Mollichella le mancava.
Era una sensazione nuova, qualcosa di cui non aveva esperienza e per questo ancor più strana. Poi, cominciò a vederla tra la folla del Decumano Maggiore. Troppo lavoro, troppo stress, fu la sua diagnosi, e si prese una vacanza. Quando tornò alla bottega, di Mollichella si era dimenticata, almeno fino al giorno in cui rivide Russo tra i passanti. Lo rincorse, costringendolo a fermarsi. “Signor Russo, come sta? E la bambola?”
“Quale bambola” rispose lui, fissandola con gli stessi occhi neri e sofferenti con i quali l’aveva implorata di ridare vita alla sua unica ragione di vita.
“Come quale bambola?” riuscì a dire Teresa, dopo un attimo di smarrimento. “Non ricorda? La pioggia, la bambola senza gambe, la mia bottega?”
L’uomo scosse il capo. “Per prima cosa non mi chiamo Russo e non ho le mai portato nessuna bambola.”
“Lei mi ha dato una bambola senza gambe da aggiustare, non sono certo impazzita.”
L’uomo strinse i pugni così forte che le mani sbiancarono. “Se osa parlare ancora di mia figlia e della sua malattia giuro che …”
“Babbo, babbo, dove sei?”
La voce cristallina arrivò improvvisa.
Quando Teresa vide la bambina correre incontro al padre, si sentì mancare. Non per l’andatura sghemba, non per il rumore insolito che le due protesi di legno producevano sulla pietra lavica. Quello poteva sopportarlo, ma non la vista della camiciola di raso bianco con gli inserti rossi e le calze con i pon pon, le scarpe di vernice lucidissima. La bambina aveva fitti ricci corvini e un incarnato reso ancor più intenso dallo sforzo di quella strana corsa. Sorrideva, e Teresa fece in tempo a scorgere le due file di denti candidi dietro le labbra rosse, prima di svenire e accasciarsi al suolo.
E mentre giaceva lì, immobile, che già i passanti accorrevano per soccorrerla o per domandarsi a vicenda cosa fosse accaduto, riuscì a sentire la voce di Russo che si allontanava.
“Dai Mollichella, andiamo che è tardi.”
Alessandro Testa, napoletano trapiantato a Catanzaro da 12 anni, è un cardiochirurgo appassionato di scrittura e fotografia (che in fondo è un modo di raccontare). Autore di sei romanzi pubblicati da Vento Antico Editore in vendita solo sulle piattaforme online, tutti numeri uno nella classifica gialli. Quattro di essi sono una serie di ambientazione napoletana, uno è un thriller ambientato negli USA e il sesto è un thriller storico ambientato in Italia durante la seconda guerra mondiale. Autore di molti racconti di vario genere, dal mainstream alla fantascienza, per il laboratorio online Leggendoscrivendo, alcuni pubblicati su antologie.