È bello quando dal buio arriva il giorno

Sine Pagina - È bello quando dal buio arriva il giorno
Opera di Mario Perrotta, per gentile concessione dell’artista.©Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata

Racconto di Monica Girimonte

Dopo la scuola Marco mi ha chiesto di uscire con lui. Lo ha fatto in maniera spavalda, senza imbarazzo, con quell’aria sicura di sé che lo rende un figo pazzesco. Oggi non cammino, volo. Sfioro appena l’asfalto accarezzando con le scarpe i  ciuffi d’erba tenera e lucida che, per la prima volta, mi appaiono vita che nasce dal nulla. Nel petto il cuore batte all’impazzata, una batteria che tiene il tempo, nella pancia milioni di farfalle, nelle orecchie la musica di Coez.

È quasi sempre bello se dal buio arriva il giorno.

È bello se le nuvole sono solo un contorno.

A volte è bello avere diciotto anni.

È bello se mi chiami.

È bello se rimani. (1)

Mi piace tanto Marco. È proprio bello con i jeans a vita bassa strappati alle ginocchia, con la maglietta hard rock cafè e i capelli mossi che ricadono morbidi sulla fronte. Ne parlo sempre con Marika, la mia migliore amica, ne parlo fino alla nausea, fino a che lei non ne può più e mi dice di smetterla.

Oggi ho messo i jeans attillati. Li indossavo anche l’altro giorno e, passandogli davanti, ho visto che mi guardava il culo. Mi sono sentita sciogliere … È il suo modo per farmi capire che gli piaccio, che sono bella.

E bella lo sono davvero, ne sono convinta. Lo vedo quando mi guardo nello specchio, quando mi giro a osservare il mio riflesso nelle vetrine dei negozi, quando percepisco gli sguardi di ammirazione negli occhi dei ragazzi. Mi piaccio e non ci trovo nulla di male, per questo indosso tutto quello che mi va.

Ce l’ho messa tutta per farmi notare da Marco e finalmente ce l’ho fatta.

A casa c’è odore di sugo.

Mia madre cucina da Dio. È in gamba mia madre, è una madre volpe, una di quelle che capisce al volo, che ti scruta l’anima guardandoti fisso negli occhi come se ti scavasse dentro. Oggi le basta davvero poco per capire. “Siamo allegre eh?” dice.

Lo sa che mi piace Marco, quello che non sa è che ho messo i jeans stretti solo per farmi notare da lui. Su questo avrebbe parecchio da ridire. Ha l’animo da femminista, sarebbe incomprensibile per lei che una donna indossasse qualcosa solo per far piacere ad un uomo. Vanno bene i jeans attillati, va bene la minigonna, ma solo se piace a te. Mia madre, femminista nell’anima, casalinga che fa il sugo buono nella vita.

“Vai a mettere un maglione lungo su quei pantaloni, altrimenti tuo padre farà storie.”

Mio padre è un brav’uomo, ma di vecchio stampo. È uno che vede in bianco e nero, è uno per cui o sei santa o sei una poco di buono, non esistono mezze misure. Con lui non parlo quasi di niente, siamo due linee rette parallele che mia madre cerca di intersecare con scarso successo.

Pranziamo parlando del più e del meno, poi vado a chiudermi in camera mia: “Devo studiare, domani ho compito di latino” dico.

Prima di studiare però mi stendo sul letto, faccio partire l’MP3 e chiudo gli occhi. Ho bisogno di rivivere la scena, di risentire quei colpi nello stomaco quando Marco mi ha detto che mi avrebbe chiamata per andare a mangiare una cosa insieme. Il telefono vibra. Messaggio. È lui: ti aspetto al bar nel parco. Vieni, ti offro il caffè. Salto dal letto in preda a Diosolosachecosa. Non me lo aspettavo così presto. La mia coscienza mi presenta l’elenco delle cose da studiare per domani, ma il mio cuore pompa all’impazzata e la mette subito a zittire mentendole: si studia poi, stasera, in fondo è solo un compito. Mi sistemo e corro.

Marco è seduto al tavolino, mi sento in forte imbarazzo, non è solo. Ci saranno almeno cinque altri amici, ma non li conosco tutti. Mi accoglie tendendomi una mano e facendomi sedere accanto a lui. Mi presenta come la sua ragazza. Arrossisco. Neanche questo mi aspettavo: la mia ragazza. È come se avessi due cuori, uno strafelice e lusingato di essere la ragazza di Marco, l’altro un po’ deluso perché lui lo ha detto prima agli altri che a me. Con un colpo di spugna cancello queste sensazioni e ritorno con la testa al tavolino del bar. Il clima è confidenziale, sembrano conoscermi da sempre e io non voglio certamente fare la parte della bacchettona, perciò sorrido alle loro battute, persino a quelle sconce. Parlano senza freni inibitori, parlano di tutto, di tutti. Ce n’è uno in particolare, un certo Andrea, che racconta dettagli intimi di ragazze con cui ha avuto delle storie. Alcune le conosco e la cosa mi mette in imbarazzo. Lo guardo e non posso fare a meno di notare che, quando arriva a descrivere un momento particolarmente hot, strizza gli occhi in una maniera stranissima. Sembra una lucertola.

Confesso di sentirmi a disagio. Mi chiedo che gusto ci provi a raccontare queste cose davanti a me che non conosce, cerco di convincermi che in fondo è un modo di accogliermi per cui dovrei sentirmi grata. Marco mi si avvicina, mi sfiora l’orecchio sussurrandomi: “Sono contento che sei venuta.” Chiudo per un attimo gli occhi aspettandomi un bacio e invece mi ritrovo la sua mano sulla gamba mentre continua a parlare coi suoi amici ridendo di chissà chi. Lo lascio fare, sono la sua ragazza, mi ripeto con orgoglio, ma in quel momento le farfalle escono via dallo stomaco svolazzando altrove, in mondi lontani.

Oggi è San Valentino.

Negli ultimi giorni con Marco ci siamo visti poco. Tra lo studio e lo sport il tempo per noi è passato quasi sempre al telefono. Ma oggi è San Valentino. Oggi è un giorno tutto per noi. Aspetto che venga a prendermi sul vialetto per paura che mio padre mi becchi con l’enorme orsacchiotto di peluche che ho comprato per lui. Magari andiamo a mangiare una cosa o forse al cinema a vedere un film romantico. Dal pianeta di Chissaddove le farfalle sono tornate nel mio stomaco.

Lo vedo arrivare in motorino. “Salta su che andiamo a casa mia, i miei non ci sono” mi dice dando un’occhiata veloce e distratta all’orsacchiotto.

La casa è in perfetto ordine ad eccezione della sua stanza. Oggetti sparsi in maniera confusa, solo le tende sono completamente tirate. I miei pensieri si affollano, questo viavai di farfalle inizia ad infastidirmi.

Mi porge un pacchetto. “Il mio regalo”, dice. “L’ho  trovato perfetto per te.”

Un completo di biancheria intima in pizzo nero. Non me lo aspettavo, non così presto almeno. Non ci siamo visti che poche volte. Non abbiamo mai parlato di cose serie, di noi. Non ci siamo mai scavati l’anima.

Mi dice di indossarlo perché vuole vedere come mi sta. Obbedisco come un automa. Mi domando perché dovrei avere paura. È lui, è Marco, è il ragazzo che voglio da sempre.

Accade tutto molto in fretta. È come una danza frenetica, tribale, di cui non afferro il ritmo, la melodia. È come una canzone che aspetti di sentire da tempo, ma stona al ritornello. Faccio appena in tempo a dire: “Guarda che per me è la prima volta …” e  mi ritrovo avvinghiata tra braccia, capelli, umori e odori.

A casa sul letto guardo fisso sul soffitto. Ho freddo, la finestra è aperta, ma non mi copro. Guardo le luci proiettate dalla lampada multicolor che è sul comodino. Non avevo mai notato quanto somiglino a delle farfalle. Sono le stesse uscite ancora una volta fuori dal mio corpo.

Arrivo a scuola trafelata.

La mattina dopo ho fatto tardi. Davanti al portone cerco Marco con lo sguardo, ma non lo vedo. Neanche un messaggio sul telefono, eppure ha visualizzato il cuoricino che gli ho mandato. È strano: io guardo per cercare lui e, invece, tutti guardano me.

Il mio banco mi accoglie con la scritta TROIA in pennarello nero. Intorno a me è tutto un sussurrare. Persino Marika è strana. Mi ha lasciata da sola per sedersi vicino a Piero, il secchione della classe che tutti detestano ma circuiscono quando devono farsi passare la copia durante le verifiche. Forse mi sbaglio, forse esagero, ma il resto della mattinata trascorre tra strane allusioni, occhiate indagatrici, amiche sfuggenti e Marco che non c’è.

All’uscita blocco Marika. “Ma che succede?” le chiedo.

“Ma non hai visto niente tu? Sta su tutti i social” mi risponde con un imbarazzo di colore rubino e fugge via.

Rimango inebetita, incredula. No, non ho visto, non ne ho avuto il tempo. Lo faccio per strada, mentre cammino. Mi fermo. Mi devo fermare. I miei occhi non vogliono vedere, le mie orecchie non vogliono ascoltare. Un video mostra un ragazzo di spalle, irriconoscibile, avvinghiato a una ragazza in completino di pizzo nero. Sono io, quella lì. Tutto è stato filmato, tutto registrato. Ogni particolare visivo e sonoro dato in pasto al mondo. Sì, al mondo. Un numero indefinito di condivisioni, di commenti di ogni genere. Ne scorro alcuni, ma non reggo. Ho un forte ronzio nelle orecchie, non so come mi ritrovo carponi a terra. Faccio appena in tempo a correre dietro una siepe. Vomito. Vomito pezzi di cuore. Vomito farfalle.

Arrivo a scuola trafelata.

La realtà con cui mi scontro è dura. Le nuvole su cui camminavo, ora sono cemento a presa rapida in cui affondo i piedi.

A casa non ho raccontato nulla, non ho potuto. Marika mi ha balbettato un “mi dispiace” con un imbarazzo che sembrava una carezza di ghiaccio.

Sono sola, sola in una gabbia che mi stritola. Un pensiero si insinua nella testa facendosi più rumoroso.

Sono arrivata.

Ho il fiatone, la strada è uno sterrato con una salita ripidissima. Però l’ho fatta in un baleno, ho dei vestiti comodi, li preferisco da quando non metto più i jeans. Nonostante sia un bagno di sudore, sento vibrare il corpo dal freddo. Il tremore quasi mi immobilizza.

Ancora pochi istanti e non sentirò più nulla. La rupe è a strapiombo. È un luogo brullo, tanta infelicità è passata di qua. Dicono che chi l’ha fatto prima di me non ha sentito dolore. Si arriva subito, neanche il tempo di sentire l’aria che ti attraversa. Ripenso alla lettera che ho lasciato sulla scrivania.

Mamma, papà vi voglio bene. Una spiegazione ve la dovevo. Perdonatemi, se potete.

Sono in cima, la punta dei miei piedi sente già il vuoto. Mi dondolo, guardo il cielo, non lo avevo mai visto così azzurro, allargo le braccia e volo. Addio.

Brividi Ovunque.

Mi sveglio in un bagno di sudore e mi accorgo di essere in ginocchio sul letto. Sono viva e contenta di esserlo. No, non ve la darò vinta. All’improvviso tutto si fa chiaro. Non sono io ad essere sbagliata, la feccia siete voi.

Corro in cucina, mia madre è lì, mi aspetta. I suoi occhi mi raschiano l’anima, ma in silenzio aspetta me. Le parole escono dalla mia bocca come un fiume in piena. Insieme alle lacrime inondano il volto di mia madre che mi abbraccia fortissimo quasi volesse fermare il tremore che mi domina.

“Non è niente, non è niente” mi sussurra all’orecchio, “ce la faremo, ce la faremo.”

Invece è, ma’, invece è. È tanto, è troppo. È un furto, mi hanno rubato l’anima, mi hanno sradicato il cuore, mi hanno tolto la pace. “Ma’, come lo dico a papà?” singhiozzo.

“Tuo padre capirà, non avere mai dubbi su questo.”

Ma come fai, ma’? Come fai a non odiarmi? Come fai a far sembrare niente questo orrore? Come fai a convincermi che lo schifo non è mio, ma loro? Eppure l’abbraccio in cui mi stringi, mi dice che lo pensi davvero, che sei sincera. Il mio cuore si alleggerisce, si snebbia. Devi amarlo molto papà, ma’. Solo adesso capisco perché hai messo da parte i tuoi ideali per fare il sugo per lui, per noi. Sei un mito ma’, sei il mio mito. Da grande voglio essere come te, ma’ e fare un sugo buono proprio come il tuo.

Vorrei fosse domenica

E stringi la giornata tra le dita

Che tra poco è già finita

Così è la vita

Così è la vita. (2)

(1) tratto da È SEMPRE BELLO, brano di Coez

(2) tratto da DOMENICA, brano di Coez

Monica Girimonte, laureata in Lingua e Letteratura straniera, è docente, moglie, madre. Scrive per passione, scrive ogni volta che può.

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Chi sono

Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.
Se ti va, puoi seguirmi sui miei profili social.

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Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.

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