Sotto il pino fumi la sigaretta della sera.
È pace intorno, campagna assetata, frinire di grilli nell’aria ancora tremolante per la calura.
“Era così anche quel giorno di luglio, quando ci catturarono tutti” dici. “A un certo punto il silenzio era tale che pensai di essere già morto e seppellito.”
Un sospiro tradisce il filo di un pensiero che, srotolandosi, torna indietro fino al capo della matassa: l’estate del 1943. “Tutti ci catturarono” ripeti. “Che potevamo fare? Avevamo contate anche le munizioni” aggiungi e scuoti la testa, lasciando andare una boccata di fumo. “Eh, ma lo sai cosa mi fa più male? L’essere stato ingabbiato come un pollo sulla terra mia. Perché quella era terra mia, nostra, pure se i tedeschi e i ‘miricani se l’erano scordati che era nostra. Ecco, questa è la cosa che mi fa più male.” Fai un altro tiro di sigaretta e il fumo resta sospeso nell’aria ferma. “Faceva tanto caldo pure allora. In Sicilia, di più. Lì, fiumare non ce ne stanno e la terra ha sete. E in Africa il caldo era di più ancora. Lì, c’è solo sabbia. Pure in bocca la tenevo, la sabbia.” Nel dirlo, ti fai aria col cappello di paglia e fai scoccare la lingua sul palato.
“La senti ancora la sete, vecchio, dimmi? La senti ancora la sabbia sulla lingua?”
Punti lo sguardo a Ovest, verso la ‘Merica. “Quanto è grande la ‘Merica! Terra così grande non l’avevo vista mai!” esclami. “L’occhio si perde a guardarla e gli uomini si perdono a viverci. La terra nostra è migliore: qui, gli uomini si perdono soltanto se lo vogliono.”
“Vecchio, ci siamo persi tante volte, noi. Tutte le volte che abbiamo dimenticato di avere un cuore nel petto. E continuiamo a farlo, continuiamo a dimenticare e a perderci.”
“I ‘miricani so’ furbi” dici. “L’hanno capito subito che non ero fascista. Ma hanno capito pure che neanche loro mi stavano simpatici. Per questo il POW me lo toglievano ma, poi, me lo rimettevano. Rimasi non collaborazionista fino alla fine. Ma non mi ritenevano uno assai pericoloso e la pancia vuota non me la lasciarono mai. Ché, poi, se la pancia poteva essere un problema, la testa non lo era da meno. Quella vagava per i fatti suoi. E come la fermavi? Vagava, ragionava e sragionava. La verità la conosceva o, comunque, la intuiva. Pure fra i deliri.”
“Vecchio, di quale verità parli? La conosci tu, la verità? Dimmi, sai dei civili di Piano Stella? Che male avevano fatto per essere trucidati dagli americani? Erano soltanto poveri braccianti siciliani. E quelli assassinati a Gela e nella saponeria a Canicattì che male avevano fatto? E dei soldati italiani presi prigionieri e ammazzati pure se avevano alzato le mani e gettato le armi, e di quelli utilizzati come scudi umani per coprire l’avanzata alleata verso l’entroterra, e del massacro all’aeroporto di Biscari e di molto altro ancora, lo sai? Non badate alle mani alzate! Mirate alla terza o alla quarta costola e poi sparate! Dovete avere l’istinto dell’assassino: così disse Patton ai suoi uomini. Queste parole, le conosci tu che i ‘miricani non ti furono simpatici mai? No, non puoi conoscerle. E il mondo non vuole conoscerle nonostante i processi e le condanne, ché né agli italiani né agli americani piace infangare la memoria della Liberazione. Non raccontarmi stronzate, vecchio. Tu, la verità, l’hai sempre conosciuta a mozzichi. Tutti vediamo quello che vogliamo vedere, ascoltiamo quello che vogliamo ascoltare, crediamo in quello in cui vogliamo credere. Gli americani furono dolciumi, cioccolate, sigarette e libertà: questo ci piace raccontare.”
“La verità è una delle tante vittime della guerra. Ma chi la guerra la combatte, la verità, la sente” dici. “Chi la guerra è costretto a viverla e a sopportarla sa quanto pesa e quanto costa al grammo. Lo so quello che stai pensando, ragazzina. Lo leggo nel tuo sguardo. Non credere che io non conosca quello che mi ha divorato, mozzico dopo mozzico, e ancora mi divora. Non avere la presunzione di sapere tutto. Io conosco il Male, l’ho guardato in faccia, l’ho avuto puntato contro, l’ho sentito ronzare nelle orecchie, l’ho visto volarmi sopra come un avvoltoio. Ragazzina, non hai niente da insegnarmi. Tu la Storia la guardi attraverso le carte o quel che ne resta. Io l’ho tutta addosso con le sue contraddizioni. Tu bevi Coca Cola, fumi la tua Marlboro, indossi i tuoi jeans e le tue sneakers, sentendoti libera di dire e di fare e di giudicare in un mondo che t’illudi t’appartenga. T’illudi e vai avanti, mentre io muoio torchiato dal peso della Storia e delle parole troppo brutte da rivelare.”
“No, non è giunto il tuo tempo, vecchio. Devi ancora lasciarmi tutte le tue parole in eredità. Mi spettano. Io saprò attraversarne il significato. Io saprò custodirle.”
“Ragazzina, lasciami qui ad assaporare i miei vaneggiamenti e a dissetarmi con la mia stessa sete. Lasciami fumare in pace” dici e niente più.
Sotto il pino fumi la sigaretta della sera.
È pace intorno, campagna assetata, frinire di grilli nell’aria ancora tremolante per la calura.