A Evelina il sole piaceva assai

Sine Pagina - A Evelina il sole piaceva assai
Opera di Mario Perrotta, per gentile concessione dell’artista.©Tutti i diritti riservati. Riproduzione vietata

Racconto di Antonella Perrotta

L’arbusto di gelsomino sta ancora lì, al quartiere, dove è sempre stato.

Continua ad arrampicarsi su per tre piani fino ad arrivare al tetto dell’edificio dalle mura in pietra grezza, le radici conficcate in una manciata di terra vicino al portone d’ingresso.

Come fa a sopravvivere e a distendersi così in alto con quella poca terra a disposizione é un mistero ma, di certo, non é l’aria a mancargli. Di aria ne ha in abbondanza, quella che arriva dalla collina alle spalle del quartiere, quella che arriva dal mare di fronte e dal torrente che scorre di fianco.

Un tempo, le donne facevano il bucato nell’acqua del torrente, trascinandosi appresso ceste di panni sporchi per risalirle piene di panni puliti. Ad asciugare panni e sudore ci pensava il sole, il sole lì non manca quasi mai ché, quando il cielo é nuvolo, il vento inizia a tirar forte dalle colline e spazza via anche le nubi più gonfie, più scure, più minacciose.

A Evelina il sole piaceva assai.

Se lo godeva seduta su una sedia di fronte al portone e, quando i raggi diventavano troppo prepotenti, spostava la sedia e la metteva nel cono d’ombra del grande gelsomino. Profuma sempre il gelsomino, pure quando non é ancora fiorito profuma uguale.

Evelina, invece, puzzava.

Puzzava di sporcizia e puzzava di piscio. Quando le veniva di farlo, scendeva al torrente, allargava le gambe, sollevava la veste e lo lasciava andare sulla riva senza che nessuno badasse a lei, neanche le donne che lavavano i panni. Poi, risaliva al quartiere e tornava a sedersi di fronte al portone e di fianco all’arbusto di gelsomino.

Si grattava sempre Evelina.

Come fanno i gatti, ma anche i cani. Rabbiosamente. Furiosamente. Si grattava le braccia, le gambe, la schiena, la testa. A volte fino a farsi sangue. Si grattava e uccideva gli insetti, i pidocchi del corpo e i pidocchi del cuoio capelluto. Qualcuno gli restava tra le dita e lei lo guardava, godendo dell’avercelo lì, morto stecchito, quasi incredula che un essere così piccolo avesse potuto toglierle la pace. Lo guardava e lo buttava via sulle pietre del vicolo, cercandolo con lo sguardo come a essere sicura che fosse morto per davvero e non le saltasse nuovamente addosso. Ovviamente, non sarebbe riuscita a vederlo mai un pidocchio sulle pietre, ma lei lo cercava uguale.

Era sola, Evelina.

E voleva rimanerlo. Rifiutava qualunque compagnia, qualsiasi aiuto. Se le ti avvicinavi, ti guardava arraggiata, pronta a graffiare come una gatta. Lei stava bene così. Le donne del quartiere le passavano davanti, ognuna aveva qualcosa di cui occuparsi. La salutavano, le chiedevano se le servisse qualcosa, ma lei rispondeva “No” e continuava a restarsene ferma lì, al solito posto, ad ammazzare pidocchi, a godersi il sole e il profumo del gelsomino. Rientrava in casa solo quando pioveva o tirava vento.

Un tempo era stata bella.

Con la carnagione bruna come la terra di montagna, quella ricca, fertile, grassa,  nutrita dalla rugiada, dalle foglie cadute dai rami e rimaste a marcire. Anche i capelli aveva neri come le penne di un corvo e gli occhi avevano il barlume della pietra lavica. Ma, una mattina, l’avevano trovata seduta sulla sedia di fianco al portone, il corpo molle, abbandonato a se stesso, la lingua muta, i capelli arruffati di chi si è appena alzato dal letto senza aver cura di pettinarli, la pelle piena di graffi e di lividi. Era rimasta lì, con gli occhi che non vedevano più nulla, pure se a volte erano eccitati come quelli di un topo inseguito da un gatto.

L’avevano presa con la forza, a Evelina.

L’avevano presa i soldati, quelli con la pelle dello stesso colore del cuoio delle scarpe. L’avevano presa una sera di autunno, mentre tornava a casa col vestito della festa, il vestito con i fiori rosa che indossava pure la domenica in chiesa, perché quello era un giorno di festa – così dicevano tutti – ché la guerra era finita. Invece, l’avevano presa e non l’avevano più lasciata andare. Evelina era rimasta con loro per sempre, era rimasta ferma a quel giorno per sempre. Solo il vestito aveva tolto ché la festa era terminata. Pure quello si era strappato, come il suo ventre, come la sua testa, come i suoi sogni.

Era rimasta lì, Evelina.  

Anche quando tutto era finito, anche quando il quartiere era andato spopolandosi ogni giorno di più, anche quando le donne avevano smesso di lavare i panni al torrente, anche quando i pidocchi non martoriavano più i cristiani ma solo i gatti randagi, lei era rimasta lì, randagia e pidocchiosa pure lei, ferma a un passato che non conservava più memoria per nessuno, travolto prima dall’euforia e poi dalla delusione.

Era rimasta lì, Evelina.

Senza fare altro che ammazzare pidocchi, alzarsi la veste per pisciare al torrente, godersi il sole e il profumo dell’arbusto. A lei il sole piaceva assai.

Poi, un giorno, aveva sorriso ed era volata via.

Sulla sua bara, un ramo di gelsomino in fiore.

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Chi sono

Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.
Se ti va, puoi seguirmi sui miei profili social.

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Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.

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