di Loredana Gaudio
1
Se tu non torni.
Ci penso spesso, sai; e ogni volta mi sembra di precipitare nel vuoto, sempre più veloce, sempre più lontano. E se tu non ricordassi che ti sto aspettando? No, non c’è una sola ragione perché tu possa dubitare che io sia qui ad attenderti quando arriverai.
Ormai non ci sono più tue tracce nella mia giornata e i ricordi sono sogni, lontani. Ho paura di non riconoscerti, di sbagliare ancora e perderti per sempre. Non posso permettermi di lasciarti andar via di nuovo. Mi è costato più di quel che pensassi e tutto ormai dipende solo da te.
Ho scelto io, lo ricordo. È stato difficile.
Piano piano, un tassello dopo l’altro, ho eretto la mia protezione, la mia difesa. Sono arrivata perché tu potessi andar via. Sono rimasta perché tu non potessi tornare. Fino a oggi, e solo oggi.
C’è un legame, un antico appuntamento, l’unico, l’ultimo. Una promessa fatta perché non riuscivo a dirti addio, una risposta al desiderio letto nei tuoi occhi. Pensavo che sarebbe finita lì, che avrei dimenticato. Non è stato così.
Se tu non torni, io non potrò più venire da te. Aspetterò che passi il lungo giorno e passerò anch’io con lui. Ma se tornerai, coprirò il tuo cuore e me lo restituirai.
Mi appartiene. È la mia pace; è la mia salvezza.
2
Sono nella tua stanza e quasi non la riconosco, così ordinata e ferma, abituata com’ero alla tua confusione, ai giochi di colore delle tue cose sparse. Apro un po’ la finestra o rischio di impazzire: è tutto così senza che non resisto. Eppure sono convinta che se c’è un posto dove tornerai è qui, a casa tua, nel tuo nido di paglia e seta, nella scia da cometa di quegli anni.
Riapro devotamente i tuoi diari: le dita scorrono tra le pagine senza fermarsi, il tempo scorre nei miei pensieri e mi riporta ad un mattino di sole, a un sentiero nei boschi profumati d’autunno: i tuoi occhi spalancati su un fotogramma d’autore. Forse dovrei aspettarti in riva al mare, quando il cielo e l’acqua sono una sola perla d’argento e sulla riva morbida si confondono la danza dei tuoi passi e le pigre carezze di impercettibili onde…
Quando ho capito era tardi, ma non troppo.
Ti ho vista piangere, ho toccato il tuo sorriso spezzato, ho sentito il tuo cuore soffocare sotto una frana di illusioni; mentre i tuoi occhi si riempivano di lacrime, dentro di me si alzavano le barricate e si svuotavano le stanze del perdono. Ho condiviso il tuo amore per un uomo scelto tra mille, costruito e sognato lontano dal suo involucro di carne e di Io e forse solo allora ho capito che non poteva continuare così: io e te, insieme, significava soffrire troppo.
Tuttavia, non riuscivo a fare a meno della tua presenza.
Poi, un giorno d’inverno, ho avuto il coraggio di guardarti in fondo agli occhi. Quello che ho visto mi ha terrorizzata: un baratro senza fine, un’immensa voragine d’amore.
In un attimo la paralisi per la paura di ciò che poteva significare, poi piano piano l’istinto di sopravvivenza ha avuto il sopravvento e ho scelto di salvarmi, lontano da te. Il distacco è stato terribile: una sofferenza atroce, mai provata prima; un lungo tempo senza pace. Con il passare dei mesi, il dolore ha preso il colore della rassegnazione e la ragione ha cancellato i dubbi del cuore. Ho ripulito la mia mente dal ricordo delle ferite e ho rinnegato e sciolto per sempre i vincoli d’amore che mi legavano al passato. Sono rinata farfalla nella corazza di una crisalide.
Finalmente libera, senza te.
Nessun salvataggio di rapporti difficili, tradimenti e incomprensioni ricambiate con indifferenza, ecco la cura che mi ha guarita dal tuo pericoloso contagio e mi ha tenuta lontano da recidive mortali. Ho attraversato la vita da un capo all’altro seguendo il mio sentiero artificiale, senza lasciare neppure uno sguardo a tutto ciò che fosse ancora un po’ te.
L’unica vaga eccezione è l’uomo che da qualche mese mi segue sul sentiero e legge nella mia ombra i segni della tua presenza. È stato lui a farmi capire che era il momento. Mi si è posto davanti e mi ha fatto da specchio. Ho rivisto i miei occhi e ho trovato il vuoto lasciato da te. No, non è lo stesso vuoto di allora, non potrebbe. Io di questi anni non sono facile da allontanare né voglio andarmene. Ho bisogno che tu torni per occupare un posto importante, ma non posso e non voglio tornare te.
È tardi ormai, e lo sappiamo entrambe.
3
C’è una cosa che volevo dirti da tempo. Appartiene ad un passato che non conosci: ho aperto la sua posta. C’era una e_mail incompleta, che non mi ha mai spedito. Voglio rileggertela e il perché lo capirai tu stessa.
“Le persone con cui vivo, fra un po’, non mi apparterranno più … le sento lontane, irraggiungibili, chiuse in pensieri assoluti e incapaci di ascoltare … E poi, chi dovrebbero ascoltare? Me? Cosa posso dire loro che non abbiano già udito mille volte senza che questo le segnasse in alcun modo? Si attraversano gli abissi della vita senza incontrare altri che se stessi … Vorrei tanto ignorare il loro pensiero; se non lo conoscessi, ora non mi preoccuperei di capire il perché, di sondare e denudare le loro coscienze … Potrei dire che è tutto a posto, ma perché continuare a ingannare anche me stesso?…”
L’ho imparata a memoria, sillaba per sillaba. Se tu fossi stata qui non avrei mai voluto capire.
Il martedì pomeriggio Marco è entrato nella nostra stanza, si è seduto sul letto, vicino a me che studiavo, e mi ha chiesto cosa fosse un adenocarcinoma. O meglio, ha detto “l’adenocarcinoma”, il “suo”. Mi ha chiesto di spiegarglielo con parole semplici, come si fa con un bambino.
Io non parlo ai bambini da tanto tempo. Tu sai quanta paura io abbia delle domande dei bambini. Ho paura di dire troppo o troppo poco o, peggio, dirlo male. Ho paura di violare lo stupore. I bambini sono scrigni per gioielli preziosi, non le discariche delle nostre incertezze.
Ho reagito alla sua inconscia provocazione.
“È una delle forme più aggressive di cancro”, gli ho risposto.
Lui mi ha guardata con gli occhi di chi attende perché sa che c’è ancora molto da dire. E mi ha provocata di nuovo.
“Spiegami bene, si capisce poco”, mi ha chiesto.
Avrei voluto uscire, correre senza fermarmi mai per mesi, anni. Urlare, distruggere ogni cosa. Invece mi sono alzata e sono andata verso la scrivania, ho preso un foglio bianco, una matita; ho chiuso un cassetto che era rimasto aperto chissà da quando e mi sono seduta di nuovo accanto a lui. Come quando tenevo i seminari in università, gli ho fatto una lezione di oncologia, dettagliata e semplice.
Marco mi ha lasciata parlare senza interrompermi. Se l’avesse fatto, forse, non sarebbe accaduto nulla. Alla fine, tranquillo come sempre, ha continuato a riversare acido, mettendomi sotto accusa perché avevo accettato l’incarico fuori sede nonostante la sua malattia.
L’ho guardato a lungo, immobile, senza vederlo. Per la prima volta ho cercato di difendermi da lui, dal suo cinismo lucido e coerente. Se ne è accorto, ha abbassato il capo, lo sguardo perso nel vuoto, sperando che io lo rincuorassi. Non l’ho fatto perché la sua disperazione non si nutrisse della mia debolezza.
“Tu non hai bisogno di aiuto e non hai bisogno di me”, gli ho detto, quasi sorridendo.
Ha alzato gli occhi, uno sguardo duro, spietato, lo sguardo del bambino che accusa: “Non mi vuoi bene”.
Ed io ho ceduto e l’ho abbracciato forte, come sempre vinta dal terrore di perderlo. È per questo che ha continuato a tenermi in pugno, a disporre liberamente di me. Ne ho preso coscienza quasi senza accorgermene, all’improvviso. E gliel’ho detto, guardandolo dritto in fondo al cuore: “Mi stai facendo male”. Niente lacrime, come facevo un tempo, niente scenate. Solo una frase e uno sguardo stanco, il mio.
È stato come se lo avessi colpito a tradimento. Non si è dato pace; ha urlato, riso, ha detto cose terribili, quelle stesse cose che un tempo mi avrebbero annientata. Ha minacciato di uccidersi in una sfilza di bugie e cattiverie, sbattendo la porta, giù per le scale. Io sono rimasta seduta sul letto, senza muovere un muscolo. Senza respiro, senza vita, mi giungevano all’orecchio tutti i suoni della casa. Quando ho sentito che ha chiuso la finestra sono scesa dal letto. Ero a metà scala quando ho sentito l’allarme del dispositivo anti-gas: un suono intermittente, pericolo minimo. Sapevo che sarebbe finita così, prima o poi. Ho aperto la porta della cucina servendomi della chiave della dispensa.
Era sdraiato sul divano, un po’ stordito. Ho spalancato la finestra. Non una parola, il mio braccio si è mosso senza controllo, uno schiaffo violentissimo in pieno viso. Non ho fatto in tempo a sentire il dolore alla mano, la rabbia ha avuto il sopravvento, hanno avuto il sopravvento gli anni difficili, e prima che potesse replicare mi sono abbattuta sulle sue gambe con una violenza che mi ha spaventata. Poi ho chiuso i due fornelli e ho sorriso, a te che non c’eri.
Sì, perché se tu fossi stata lì, tutto questo non sarebbe successo. E soprattutto non avrei salito con calma le scale, chiamato sua madre, fatto le valigie. Detto addio. Al suo egoismo, alla sua incapacità d’amare. Sulla porta un vuoto improvviso, lacerante, il dolore che uccide e salva.
4
Ancora non mi spiego com’è potuto accadere, ma non sono più tornata.
Tu saresti rimasta, io no.
So che ha una nuova compagna e sta molto meglio, la sua malattia è quasi sconfitta. Non voglio sapere altro.
Per non pensare mi sono lanciata a capofitto nel lavoro e nel tempo libero sto ore e ore a navigare in rete. Sì, proprio io. Io che non volevo sentirne neppure parlare. Avevo bisogno di trovare un luogo che non mi ricordasse altri luoghi e persone che non sapessero assolutamente niente di me.
È stato così, per caso, che ho conosciuto lui, Fabio. Lunghe chiacchierate vaghe nelle notti insonni. Poi le mie trasferte, le sue telefonate. Sono passati otto mesi da allora. Abbiamo litigato e fatto pace mille volte, ci siamo visti tre. Non posso dargli altro. Se tu non torni.
Lui ti conosce, lo sai? Mi ha chiesto di te. Ti ha descritta meglio di come avrei fatto io. E ho capito che è giunto il momento, che devo aspettare il tuo ritorno, la mia ultima opportunità.
Da quando Marco s’era ammalato facevamo l’amore tutte le sere. Non ricordo come fosse, ricordo solo che mi sentivo sempre più sola, soprattutto dopo. Credo di averlo amato di meno dopo che tu sei andata via e lui se ne è accorto. Ricordo che non mi parlava quasi più, consumava tutte le sue energie con rabbia dentro di me e poi mi lasciava lì, come un piatto vuoto.
Non pensavo di lasciarlo. Con lui avevo trascorso un terzo della mia vita, era stato il mio primo uomo. No, non pensavo affatto di lasciarlo. E lui lo sapeva. Sapeva di avermi sempre accanto, qualunque cosa facesse. Da sempre. Ecco perché non poteva mai immaginare, né mai tantomeno l’avrei immaginato io, che tutto sarebbe finito, all’improvviso, proprio quando lui aveva più bisogno di me. Marco era abituato a me, io ero cosa sua. Ma più di me, era abituato a te, alla tua dolcezza, alla tua infinita pazienza. Non ha mai accettato il tuo allontanamento, mai ha creduto che fosse stata una scelta. Me lo ha detto spesso, facendomi capire che io senza di te sono molto poco. Dimezzata, dice lui. Non posso dargli torto. Ma tu non potevi restare e in fondo lui lo sa.
Marco ha intuito la mia nuova storia. Naturalmente non crede che Fabio possa amarmi. Dice che qualche tempo fa forse sarebbe stato plausibile, ma adesso no, non senza di te e forse non si sbaglia.
5
Non ti aspettavo così all’improvviso, giuro! Ancora non riesco a capacitarmene. Credevo sarebbe successo in un modo diverso, eccezionale. Invece, quasi non me ne sono resa conto. È stato lui ad accorgersene per primo e ora che lo guardo negli occhi capisco il perché. È l’uomo che io e te abbiamo sempre desiderato. E lui desiderava noi due, da sempre. Insieme.
Ieri sera ci siamo visti e dopo un poco, non so neppure io come, eravamo a letto. A parlare di noi, a giocare, a volte anche a litigare per un passato che non appartiene a entrambi. Abbiamo fatto l’amore senza smettere di parlare e io ho sentito per la prima volta la gioia di essere desiderata così come sono, totalmente. Non so dirti se il piacere è stato più forte o meno rispetto al passato, se lui è più o meno bello di Marco. So soltanto che sono stata bene come non mi accadeva da tempo. Null’altro.
Mi sono addormentata con la testa sul suo petto. Quando mi sono svegliata, stamattina, ho scoperto che stavo sorridendo. Mi sono alzata per preparare il caffè e mi sono guardata allo specchio. Non sono mai stata così bella.
Ti ho riconosciuta senza fatica. Una stretta al cuore, il fiato corto, un’emozione piena. Ho aperto la mia porta e tu sei tornata per non andare più via.
Perché io riuscirò a tenerti con me.
Lo devo ai suoi occhi socchiusi sul nostro futuro.
Lo devo a te che sei la mia memoria, il volto nascosto del mio cuore, la mia pace.
Che sei Me, la Me fragile e imperfetta.
La Me vera.
Loredana Gaudio è una bancaria per professione e biologa specialista in patologia clinica per formazione e passione. Ha scritto un libro di favole e racconti per blog e per una raccolta; le piace realizzare miniature, dipingere, lavorare ai ferri e all’uncinetto, leggere, andare a teatro e in sale da concerto. Ama, molto.