di Antonella Perrotta
Un velo sul cielo.
Un velo sugli occhi.
Limita lo sguardo, limita la comprensione, rende impermeabili al dolore degli altri, al dolore di un uomo, bocca di rosa e corona di spine, chiodi nelle carni e aceto sulle ferite, ché mai lingua fu così acuta, mai così pericolosa.
Scorre il sangue, ferrigno è l’odore dell’aria, soffocata da voci che sanno del ronzio di un moscone impazzito, da urla di odio, da pensieri maligni che s’insinuano nelle menti, si fanno strada, crescono nutrendosi della reciproca condivisione ché a nessuno piace pensare da solo.
È una morsa nel petto tutto quest’odio, la faccia inversa dell’amore, la negazione inconsapevole o forzata dell’umanità. Eppure ti ho amato, un tempo. Sembra così lontano, quel tempo. Mentre ora non ho più voglia di ascoltarti, ti bacio sulla guancia ma è un gesto ipocrita, il mio, è il gesto di chi ha paura di amarti e allora preferisce tradirti.
Vorrei che il cielo tornasse terso, nessuna ombra, soltanto nuvole rosa nell’aria come un’alba di primavera, mare piatto e profumo di zagara. Vorrei ascoltare il canto degli usignoli e non le urla di morte, la tua, la mia, la nostra, la morte dell’amore.
Che fine ha fatto l’amore che hai predicato? Dove si è nascosto? In quale piega dell’animo, in quale ventricolo del cuore?
Travolto dall’inganno di chi crede di amare te, ma non gli altri e, quindi, neanche se stesso. Eppure l’amore è tutto, è universo, è attitudine.
Vorrei assistere alla tua resurrezione.
Vorrei vedere con i miei occhi il sepolcro frantumarsi, ma in un sepolcro ci hai lasciato seppelliti, con te o senza di te, consumati nello struggimento di un viaggio d’indegna passione.
Noi, qui, chiusi nel sepolcro.
Tu, chissà dove.