Racconto di Alessandro Testa
Seduto a poppa, mentre l’acqua ferita dalla chiglia si richiude in una schiumosa cicatrice, accarezzo il legno solido dell’Arione che si fa bello del boma come di un ciuffo ribelle, e piace anche alla gente. Sono un’attrazione: non è piacevole ma per gli affari è un bene. L’estate passa in fretta e le formiche come me devono sbrigarsi a strappare le briciole alle cicale in vacanza.
Un anno prima.
Da quando possiedo il Luisella ho imparato che dodici metri di barca sono davvero tanti da rigovernare dopo che i turisti sono scesi. Sto pensando alla tortura ideale per chi schiaccia i mozziconi sul legno, quando una voce mi chiama dal pontile. Una ragazza con un cappello di paglia mi sorride dietro enormi occhiali a specchio. Ha un accento straniero ma il suo italiano è sicuro.
“Mi spiace ma oggi, come ogni lunedì, sono a riposo per la manutenzione.”
“Se è una questione di soldi we can make a deal” replica, poi solleva il trolley.
“Sarebbe così gentile da portarmelo a bordo che pesa un accidente?”
“Ma ha sentito quello che ho detto?” sbotto. E sbotta anche lei.
“Listen, ho fatto Dio solo sa quanti chilometri tra treno e autostop e non mi fermerò per assecondare le sue strambe idee sul riposo settimanale. Lei è un libero imprenditore, io una libera viaggiatrice, non perdiamo tempo in chiacchiere e tagliamo questi dannati ormeggi, salpiamo, leviamo le ancore o come diamine si dice in questi casi.” E sale a bordo.
A volte l’unica opzione è la resa.
Ritiro la passerella e indico alla passeggera dove mettersi e cosa fare, ancor meglio cosa non fare, durante la partenza. “Dove la porto?” le chiedo.
Siamo appena usciti dalla baia. Lei non si sta spalmando di abbronzanti e non usa il telefonino per scattare selfie. Mi dà la schiena, a prua, e quando ripeto la domanda si volta facendo spallucce. Le invidio il modo in cui riesce a tollerare la maglietta a maniche lunghe sotto un sole crudele.
“Voglio che mi porti somewhere isolato e selvaggio.”
Imposto una rotta sul pilota automatico e la raggiungo a prua. Restiamo in silenzio ad aspettare la sera: quando cielo e mare si sono completamente confusi, preparo la cena: spaghetti al tonno. “Non ho rifornito la cambusa” puntualizzo “perché non prevedevo di viaggiare.”
“Ho visto che ha del vino” dice ignorando il mio puntiglio, “si può aprire o devo pagare un supplemento?”
E così, la cena termina col Sangiovese. Mentre rigoverno, lei prende la bottiglia e sale in coperta. La raggiungo.
“So, come ti chiami?”
“Angelo.”
“Bel nome. Corrisponde al carattere?”
Sorrido. Lei si chiama Aurora, è scozzese e tutti la chiamano Rory, conosce l’italiano per aver studiato letteratura a Firenze e Roma.
“Questo giocattolo ti sarà costato una fortuna.”
Confermo, senza aggiungere che mio padre se l’è intestata per impedirmi di rivenderla, ma mi sto rifacendo delle spese.
“Ma come, devi ammortizzare e stai fermo un giorno intero?”
La bottiglia passa di mano ed io, in uno slancio di entusiasmo, prometto che mai più riposerò il lunedì. È proprio bella, Rory, eppure c’è qualcosa di oscuro in quel sorriso; un abisso che occhi azzurri e labbra rosse non riescono a nascondere. Quando si accorge che la sto fissando cambia espressione. “Cos’è, ho delle macchie verdi in faccia?” Arrossisco imbarazzato. “Anyway, non mi hai ancora chiesto perché voglio andare così lontano.”
“Non sono affari miei, immagino tu voglia goderti un po’ di mare aperto e fare un bagno in un posto tranquillo.”
Lei fa spallucce. “Sure, ma in realtà vorrei vedere i delfini.”
“E non potevi dirlo prima?” esclamo correndo al timone. “Conosco il punto migliore per osservarli. Ci vorrà un po’ di più perché siamo andati fuori rotta, ma garantisco lo spettacolo. Se non hai la fotocamera, ne ho una io e per questa volta non ti farò pagare il noleggio.”
Quando ritorno a prua la trovo addormentata. “E’ ora di andare a nanna, non puoi dormire sul ponte.”
“Mmmmmmh…”
Raccolgo la bottiglia vuota; io ne ho bevuto due sorsi, il resto se l’è scolato tutto lei. “E va bene” dico chinandomi su di lei per sollevarla. La sua leggerezza mi sorprende. Quando l’afferro, i suoi capelli mi sfiorano e di nuovo mi assale la sensazione che qualcosa non sia come dovrebbe, ma ho solo voglia di depositarla sulla branda e lasciarla dormire fino a domattina. Immagino già come sarà intrattabile e nervosa dopo la sbronza. Giunto in cabina, la deposito sul letto e mi guardo intorno, noto alcune scatole sul ripiano porta oggetti e quasi mi prende un colpo.
Vycodin, Temgesic, MS-Contin.
“Cazzo!” Torno in coperta, respirando a fondo come se fossi appena risalito da una lunga apnea. Intorno a me, il nero inchiostro della notte si increspa e fruscia mentre ombre che credevo dissolte riprendono vita intorno al Luisella.
Quando Rory sale in coperta sono sempre lì, contro la prua come una vecchia polena. È ancora intontita e ci mette un po’ prima di rendersi conto che siamo tornati indietro e che adesso ci troviamo a meno di un miglio dalla costa. Si guarda intorno, ha un sussulto, poi mi vede e quasi mi si avventa contro.
“Perché siamo di nuovo qui?” Non rispondo. Le ore trascorse a macinare pensieri e a cercare parole mi hanno indurito, reso ansioso di mostrare cattiveria. “Perché siamo tornati indietro?”
“Ti sei ubriacata e ho dovuto portarti a letto in braccio.”
Rory aspetta; quando è chiaro che non ho altro da aggiungere riflette, e capisce.
“Qualunque cosa tu abbia visto” dice, “was none of your business. Ti ho pagato perché mi portassi in mare aperto, non per mettere il naso tra le mie cose.”
“Non ci ho messo il naso, erano lì in bella vista.”
“E comunque”, prosegue ignorandomi, “le cose non sono affatto come sembrano.”
Scoppio a ridere, ed è una risata genuina. “Certo, l’idrocodone è per il mal di testa, la morfina per la nausea e il temgesic per i mal di schiena. E la paglia ci sta alla perfezione col caffè.”
Le mie parole volevano essere taglienti ma hanno l’effetto di stupirla: forse non si aspettava una mia conoscenza così approfondita dei farmaci. Corre via e scompare sottocoperta; quando torna su ha con sé una busta di plastica che lancia in mare.
“Sei impazzita?” le chiedo guardando la busta allontanarsi seguendo la corrente.
“Ne volevi un po’?” ribatte lei in un tono acido.
“Non dire stronzate, mi riferivo al fatto che non si gettano rifiuti in mare” indico la costa e aggiungo: “Se ci vedesse la Capitaneria…”
“Un buon motivo per invertire la rotta e tornare verso il dannatissimo posto dei delfini. Ora che non ci sono più alcol e stupefacenti a bordo possiamo navigare fino alle porte del paradiso.”
Il Luisella è ripartito. Rory è sottocoperta. Mi arrivano dei suoni e mi pare di sentirla parlare ma forse mi immagino tutto; forse sono ancora le ombre con le quali ho lottato nel buio.
O forse no; risale in coperta e mi fa cenno di venire sotto. “Non avevi solo scatolame in cambusa” spiega prima che possa commentare la vista della frittata in bella mostra sul tavolino. “Ma qualche uovo era rotten, dovresti tenerli nel frigo.”
Mi si avvicina così tanto che posso vedere la profondità oscura dietro le sue iridi azzurre. “Senti, forse ho esagerato ma questa è la mia barca e anche le tue parole sono state offensive.”
Rory annuisce.
“Mangiamo, dai” propongo, spingendola con delicatezza verso la frittata.
Il vino ci sarebbe stato alla perfezione. Torno al timone mentre lei rigoverna e il pomeriggio si porta via le nuvole di afa che promettevano pioggia. Rory mi raggiunge al timone e mi si siede accanto.
“Mi dispiace per quello che ho detto, non avrei dovuto. E mi dispiace per essermi ubriacata la scorsa notte. I’m so sorry. Ma ero sincera quando ti ho detto che le cose non sono come sembrano. Quanto ci metteremo per arrivare?” chiede cambiando improvvisamente argomento.
“Saremo sul posto a notte fonda” rispondo. “Dovrai aspettare l’alba.”
Scoppia a ridere, e quando le chiedo il motivo mi poggia una mano sul braccio. “Aurora dovrà aspettare l’alba” sussurra, aggiungendo che intende riposare e non cenerà, poi scende in cabina lasciandomi solo col timone e la sensazione della sua mano su di me.
La notte è fresca, tersa, piena di luna e di riflessi d’argento. Giungo al punto prefissato, calo l’ancora e mi rilasso. Trascorre un’ora buona prima che mi decida a scendere sotto coperta per prepararmi la colazione. Dalla cabina arriva, attutito, una specie di lamento. Forse sta sognando. O forse no: apro la porta.
Rory è distesa a pancia in giù, mezza dentro e mezza fuori dal letto. Riconosco il tanfo acre del vomito e quello dolciastro del sudore. La risistemo sul letto e la giro su un fianco, le tengo il viso freddo tra le mani e, per un momento, l’inclinazione della barca fa sì che la luna glielo illumini. Lei apre gli occhi, trema da far paura e mi rendo conto che ha la febbre alta.
“Perché non mi hai chiamato?” le chiedo.
Rory cerca di sorridere. “E cosa avresti potuto fare?”
Ottima domanda. Le scuoto con delicatezza la testa cercando di tenerla sveglia. È in crisi da astinenza, ha bisogno di roba. Cerco, ma nel trolley e nello zaino non trovo nulla. Nel marsupio trovo il suo borsellino e, nella speranza che ci sia anche solo una bustina tiro fuori un foglio ripiegato diverse volte su se stesso. È scritto in inglese.
My bucket list.
Di qualunque cosa si tratti, in questo momento non mi è di nessuna utilità. Torno da Rory. “Dimmi dove hai la roba. Ce l’hai addosso? In tasca, forse?”
“Non c’è nessuna roba” riesce a dirmi, poi mi chiede un po’ d’acqua. “Sta passando” mi rassicura.
La sistemo nella mia cabina; mi dà appena il tempo di adagiarla sulla branda che ricade in un sonno profondo, così torno in coperta L’aurora ha ceduto il passo all’alba, ripenso alla battuta di Rory, e quasi mi viene da piangere.
Rifletto: forse ha scelto la gita in barca e il pretesto dei delfini per una drastica cura: un po’ come tirarsi un dente legando lo spago alla maniglia della porta. Se è davvero così, penso tornando sotto coperta, merita rispetto per il coraggio mostrato.
Rory è sveglia, rannicchiata sulla mia branda e non trema più. Il suo viso, prima pallido e cereo, ha ripreso un po’ di colore.
“Come va?” le chiedo. “Se hai bisogno di più tempo possiamo stare all’ancora per un paio di giorni ancora.”
“Non ci saranno altre crisi” mi spiega, e quando vede la mia espressione scettica aggiunge “I promise.”
“Rory” le dico sedendomi sulla brandina. “So esattamente come ti senti, cosa ti passa per la testa e come starai fra qualche ora. Quale che sia la storia racchiusa dentro di te, io la conosco perché l’ho già vissuta.”
Un raggio del primo sole le illumina gli occhi, mentre mi prende una mano tra le sue e se la porta al viso. “Una storia.”
Annuisco.
“Raccontamela, would you?”
È una storia di draghi che non vengono uccisi da cavalieri coraggiosi, di boschi tetri senza case di fate. Le racconto cose che non ho detto mai forse nemmeno a me stesso.
Rory, ascolta la mia storia e alla fine mi dà un bacio: un bacio semplice, che non ha nulla di meno e nulla di più di quello che dovrebbe avere. “Adesso mi piacerebbe ascoltare la tua, di storia, se te la senti.”
Rory mette le gambe giù dal letto e mi chiede di prenderle il marsupio. “Questa è la mia bucket list” mi dice mostrandomi il foglio che avevo già visto. “Un elenco di cose da fare, prima che …” si interrompe, ripiega il foglio e sospira. “È da un anno che viaggio per spuntare ogni singola voce di questa lista. È stato difficile ma io sono testarda e non mollo facilmente.”
Me la porge, traducendo per me. Apprendo così che ha passato una giornata con Orlando Bloom, che John Bon Jovi ha cantato solo per lei, che sempre per lei si sono aperte le porte dei sotterranei del Louvre perché potesse ammirare dipinti mai esibiti al pubblico e che Obama in persona le ha fatto fare il giro della Casa Bianca. Rory ha cavalcato elefanti e accarezzato tigri.
“E questo Arione?” le chiedo riferendomi all’ultima voce in lista.
Lei si riprende il foglio. “Arione è la storia che devo raccontarti.”
È affascinante questo Arione, del quale Rory mi racconta il mito.
“Così era per questo. Ma tu hai girato il mondo, ci sono tanti altri posti in cui avresti potuto vederli molto più facilmente.”
Lei indica il mare e mi rendo conto che quello in cui siamo fermi in attesa è lo stesso di cui Erodoto parlava oltre duemila anni fa. Il mito è anche questo, mi spiega.
“Cosa farai dopo? Voglio dire, dopo aver terminato la lista?” Non mi risponde. Un pensiero improvviso mi illumina, e le faccio la domanda che, forse, avrei dovuto farle dall’inizio. “E poi perché la lista?”
In quel momento sentiamo l’acqua aprirsi: qualcosa di enorme e lucido emerge per scomparire subito dopo. La scena si ripete mentre i delfini danzano intorno alla barca, salutandoci.
“Quanti saranno?” mi chiede.
“Forse più di dieci. Non hai risposto alla mia domanda.”
“Non ce ne sarà bisogno” mi dice avvicinandosi. Mi bacia ancora, sfiorandomi con delicatezza, quindi porta le mani ai capelli, che sono in realtà una parrucca. Mi mostra il cranio lucido e bianco senza vergogna, come se mi stesse mostrando le lentiggini.
“Ti avevo detto che le cose non sono come sembrano” dice prima di tuffarsi in acqua.
E, che ci crediate o no, i delfini se la portano via.
Mi sono gettato in acqua, ho nuotato, sono tornato indietro e mi sono messo a guardare il mare per un giorno intero nella speranza di vederla tornare. Ma sapevo che non l’avrebbe fatto, ora che la sua lista era completa. Mi ha lasciato così, col bacio più dolce del mondo, un sorriso e quella massa di capelli corvini che ho riportato a riva insieme con le sue cose.
Quando mi hanno interrogato, gli inquirenti erano convinti che l’avessi uccisa io per prenderle i soldi. Poi hanno scoperto che Aurora Stanton era malata di linfoma di Hodgkin e aveva rigettato ben due trapianti, aveva lasciato una lettera ai genitori nella quale li salutava e si sono convinti della mia innocenza.
Ci ho messo diverso tempo prima di ritrovare il coraggio di salire sul Luisella, ma l’ho fatto solo dopo averlo ribattezzato col nome che Rory avrebbe amato.
E mi piace pensare che anche Arione, il mio 12 metri, sia contento di prendere il mare per lasciarsi guidare dai delfini.
Alessandro Testa, napoletano trapiantato a Catanzaro da 12 anni, è un cardiochirurgo appassionato di scrittura e fotografia (che in fondo è un modo di raccontare). Autore di sei romanzi pubblicati da Vento Antico Editore in vendita solo sulle piattaforme online, tutti numeri uno nella classifica gialli. Quattro di essi sono una serie di ambientazione napoletana, uno è un thriller ambientato negli USA e il sesto è un thriller storico ambientato in Italia durante la seconda guerra mondiale. Autore di molti racconti di vario genere, dal mainstream alla fantascienza, per il laboratorio online Leggendoscrivendo, alcuni pubblicati su antologie.