di Antonella Perrotta
C’è uno strappo nella mia memoria.
Un buco nero nel quale sprofondo senza vedere né sentire nulla.
“Ti ricordi di quando giocavamo nel cortile delle suore? Ti ricordi di Marilena?” mi chiede la mia amica Rita.
Io sorrido, imbarazzata. “No” le rispondo.
“Impossibile!” fa lei.
E invece, non ricordo davvero.
Neanche le prodezze di Marilena ricordo.
Neanche Marilena ricordo.
C’è uno strappo qua e là.
Qualcuno negli anni delle elementari, qualcuno anche prima, qualcuno negli anni del liceo. Dall’università in poi ricordo tutto benissimo. Volti, nomi, voci, odori, sapori, luoghi, umori. Quello che ci sta prima, a volte, mi turba. Mi turba il non ricordare di fronte al ricordare altrui. Non trovo una giustificazione alle mie dimenticanze. Mi dico che, forse, ho sovraccaricato il cervello, che dovrei fare spazio e allora i ricordi torneranno. Ma non saprei cosa eliminare. Volontariamente, almeno. Come si fa a eliminare consapevolmente un ricordo per farne spazio a un altro?
Mi dico anche che magari con la vecchiaia i ricordi più lontani ritorneranno. Così dicono: che i vecchi ricordano bene il passato remoto e sfuggono al passato prossimo, anche cosa hanno mangiato a colazione quella mattina dimenticano, ma ricordano benissimo cosa mangiavano a colazione settant’anni prima, quando si era tutti intorno alla tavola e c’era ancora una madre che la preparava, la colazione.
A volte, scavo nelle vecchie foto, riprendo in mano qualcosa che mi è appartenuto in quegli anni, quelli dell’infanzia, della fanciullezza, dell’adolescenza, e che ho conservato come una reliquia per preservare il ricordo. Ma di cosa? Non riesco a mettere a fuoco, non riesco a ricucire gli strappi.
Fosse facile.
Sarebbe bello se la memoria fosse un grande rotolo di stoffa da srotolare a piacimento, piano piano, come fa il vento con le foglie cadute sul marciapiede. Un grande rotolo di stoffa da ricucire dove è strappato.
Fosse facile.
Qualcuno dice che si tendono a dimenticare i traumi subiti. Se così fosse, dovrei averne subiti parecchi, uno per ogni strappo. Ma non ricordo di essere stata traumatizzata da qualcosa o qualcuno in particolare. Forse, la lacerazione è stata irrimediabile.
“Alle medie Marilena spernacchiava sempre il professore di religione e lui le tirava in testa un mazzo di chiavi. Noi, di riflesso, ci proteggevamo tutti parandoci con le braccia” dice Rita.
Ecco, sì. Il professore di religione lo ricordo. Alto, secco, pelato. Ci diceva che non dovevamo dire cazzo perché il Signore si sarebbe offeso. Ma delle chiavi non mi ricordo. Neanche di Marilena. Chi cazzo era ‘sta Marilena?
È strana la memoria.
A volte, perdo la corporeità delle persone. Mi succede quando non le vedo da vicino da un po’ di tempo. Soltanto qualche foto sui social, le foto profilo su whatsapp, qualche altra foto sparpagliata nel cellulare, qualcuna insieme durante una cena, un aperitivo, una vacanza.
Solo pixel. Immagini piatte, senza volume, senza consistenza, senza odore. Quelli, il volume, la consistenza, l’odore, non li ricordo. Anche quelli la memoria slabbra fino a strappare. Lo dico sempre che le persone devono vedersi faccia a faccia, raccontarsi guardandosi negli occhi, quando è possibile, almeno. Altrimenti, la memoria finisce per slabbrarle. Di loro restano le tinte di una foto piatta.
Di Marilena, poi, non ho neanche una foto.
Vorrei riuscire a ricostruire la consistenza corporea di alcune persone.
Quelle cui ho detto, “Ciao, a presto!” e che, invece, non ho rivisto più, mai più, se non in foto. Quelle che non ci sono, eppure ci sono. Lì, da qualche parte, fra gli strappi della memoria, fra gli arrivederci che erano addii.
Rita parla, lei ricorda, ricostruisce, anella circostanze, le incatena, le colloca in uno spazio temporale. A volte, mi viene il sospetto che si stia inventando tutto, che la sua sia una memoria di fantasia. Ma lei è tranquilla, ride quando tira fuori qualche fatto buffo.
E allora rido anch’io. Fingo di ricordarlo, lo ricostruisco, lo invento attraverso le sue parole e la sua memoria.
Poi, mi sento stanca, un germoglio appena spuntato che guarda in alto verso il sole, le radici piantate in basso nel buio della terra dove nessuno le vede.
Un germoglio che si chiede come abbia fatto ad arrivare lì e continua a crescere, a guardare il sole, a nutrirsi dalle sue radici al buio. Neanche lui le vede, eppure stanno sempre lì, ai suoi piedi.
Fra loro ci sta anche Marilena.
Sepolta fra gli arrivederci che sono stati un addio.