di Antonella Perrotta
Mi stendo sul letto. Chiudo gli occhi. Attivo il timer.
Provo a immaginare il mio mondo senza luce.
Un secondo. Bip, Bip.
Due secondi. Bip, Bip… Sessanta secondi. Nel frattempo, il corpo s’irrigidisce, invece di rilassarsi.
Bip, Bip… Due, tre, quattro minuti. Il pensiero non si ferma, sembra impazzire. Allora, respiro a fondo.
Bip, Bip… Cinque minuti. Un’eternità. La mente continua a non fermarsi. Mi dice che resto viva anche al buio.
Penso: cosa potrò fare al buio?
Non so rispondermi. In fondo, al buio di un grembo cresciamo, ma è alla luce che aspiriamo. Veniamo alla luce, così si dice.
Bip, Bip… Sei minuti. Non resisto più. Sono una donna al buio che vuole ritornare alla luce.
Apro gli occhi e un raggio di sole dalla finestra mi colpisce come lanciato da una fionda. Esco ed è il verde delle piante del giardino a colpirmi adesso e il giallo dei fiori tra l’erba incolta. Andrebbe tagliata ‘sta erba, ma i fiori no, quelli meglio lasciarli dove sono spuntati. Poi il mare, agitato dal vento delle colline, picchiettato da minuscoli punti bianchi sulla superficie.
Quando mai ho guardato così?
Ho visto tanto e guardato poco, ché ogni cosa sembra perdere significato quando diventa abitudine e la normalità è così normale da non farci caso.
Tutto è ora, ma potrebbe non essere domani.
Ci ho mai pensato? No, non ci ho mai pensato seriamente. Molto di ciò che posseggo l’ho dato per scontato, acquisito, naturale. Ho pensato a ciò che non è, ma potrebbe essere. Ho pensato a ciò che potrei avere e non a ciò che potrei perdere. Sono stata cresciuta con le favole che contengono l’amarezza e la sofferenza della vita e l’ingiustizia del mondo, ma pure il lieto fine, e rappresentano un atto di fede, il segno della croce riservato ai più piccoli, il Padre Nostro prima del sonno.
Vedi, bimbo, quante gioie arriveranno dopo la sofferenza? Basta soltanto non arrendersi mai, ché il Bello e il Buono esistono e anche tu li avrai, perché anche tu sei bello e buono e meriti il meglio. E se anche giorni bui, tristi, velenosi, ingannevoli, ingiusti, ci saranno, non preoccuparti, bimbo, e abbi pazienza, confida in te e nella sorte perché, prima o poi, ti verrà in soccorso una fata buona che con la sua bacchetta magica li farà evaporare come neve al sole e, se lei non verrà, sarai tu a fare in modo che arrivi e, allora, neanche il ricordo di quei giorni sopravvivrà in te, giovane principe, giovane principessa, bimbo amato e felice che mai sarà stato un ceppo di legno, una sguattera, una prigioniera nella torre.
A questo aspiriamo, a diventare principi e principesse felici in un giardino di rose senza spine, mentre ci affanniamo nel nostro quotidiano andare che guarda lontano, sempre più lontano, come se non fossimo altro che la proiezione di noi stessi e non stessimo qui, ora, e non avessimo già molto, forse tutto, qui, ora. E nell’andare verso il domani, annulliamo l’oggi e pure gli attimi passati, quelli fermati e quelli sospesi, la terra, il mare, le energie, le città, le nostre case, le nostre famiglie, la nostra pace, ansimanti verso un’evoluzione che, forse, evoluzione non è.
E mentre me ne sto con gli occhi chiusi, avvolta dal buio, provo rabbia nel pensare che, se alla speranza nel domani siamo stati educati, ad apprezzare e preservare l’oggi non lo siamo stati abbastanza ed è così che abbiamo perso molto. È questa la nostra cecità? È questa la mia cecità?
Ma, i miei, sono soltanto vagheggiamenti di una donna che ha provato il buio per sei minuti, ha rimpianto la luce e l’ha ritrovata bella come mai era stata e si rifiuta di credere che luce potrebbe non essere più. Ché, con le favole, è stata educata.