PARTHENOPE. Il nuovo film di Paolo Sorrentino

Sine Pagina - PARTHENOPE. Il nuovo film di Paolo Sorrentino
Immagine generata con AI (Canva App)

Recensione di Maria Cavallo

In un film che non sfugge a critiche, la fatica e l’euforia della vita scorrono davanti agli occhi come il carrozzone di Renato, popolato di regine, fanti, re, puttane, preti, santi e comparse, e sono sempre queste ultime a incantarmi, perché nello spazio di quella  marginalità cinematografica fioriscono le distese più fertili dell’immaginazione e si aprono ampie riflessioni.
Le osservo con morbosa curiosità, cercando di trattenere quella fugace inquadratura, un attimo che forse nemmeno loro pensano di meritare, ma in cui, tra spettatore e attore, si crea uno scarto di aspettativa che mi regala fantasia e libertà interpretativa. (Come dal treno in arrivo a Napoli, dove le case sono così vicine da spingere dentro lo sguardo – in barba a qualunque ossessivo culto della privacy! – a immaginare la vita di chi inconsapevolmente diventa attore principale di una scena non voluta, ma che io gli ho dato per filantropica opportunità).

Non mi soffermo sulla trama di Parthenope né sul processo autobiografico con cui l’uomo-regista, Paolo Sorrentino, sta scrivendo ultimamente un’epica non solo personale, ma sul suo linguaggio cinematografico, quello delle parole e delle immagini.

I lampi di luce caravaggesca di questa pellicola nobilitano “vasci” e latrine in cui “chiagnere e fottere” sono la risposta a una precisa condizione geoesistenziale, (laddove lo spazio fisico è tutt’uno con la vita stessa), imposta dal bisogno o dalle domande sbagliate. Mentre negli ambienti più alti, pseudo vincitori della lotta per la vita sono incorniciati in quadri di sontuosa decadenza, che puntano quella luce proprio sul fallimento della ricerca del senso.
Un capovolgimento di ruoli, nel gioco del chiaroscuro: la luce fa esplodere la malinconia e la perversione e il buio suggerisce le possibilità perdute.

In questo scenario, in cui si tenta di ricomporre l’enormità della vita, i dialoghi non fluiscono naturali e spontanei, ma rispondono a un’urgenza epidittica e si comprimono in sentenze lanciate come strali nella pancia, nel petto, nella testa: è il modo per rendere più trasparente possibile la verità.
In greco, “Aletheia”, la Verità, è proprio questo: uno svelamento, un “levámmoce ‘sta maschera, dicimmo ‘a veritá”, come canta l’anima partenopea; e ironia, rabbia e disincanto sono gli strumenti per dichiarare la presa di coscienza degli autoinganni e dei fallimenti, così avviene nell’apostrofe di Flora Malva ai Napoletani, lei compresa, che scortica l’anima come Apollo scuoiò Marsia.

Alla fine della vita, non ci servono più risposte giuste, ma ci tormenta il dubbio di aver posto le domande sbagliate.

Parthenope, mito e simbolo, emerge dal mare riconsegnandoci una precisa identità culturale, fatta di miti e di riti, ma soprattutto degli interrogativi entro cui l’uomo ha cercato di risolvere o dissolvere il dramma dell’esistenza.
Ecco perché non rappresenta solo Napoli ma la vita stessa: vergine e puttana, ammaliante e bastarda, benedetta ed esecrabile, poco donna di provincia e più di bordello.

Il “sugo della storia” di questo nastro, che si svolge su un’atmosfera da ‘fin du siècle’, si raccoglie tutto in un dialogo conclusivo che trascende l’aforisma e confonde tutti i sensi:

«L’antropologia è vedere, semplicemente vedere. Ma vedere è difficile.»
«Quando si impara a vedere? Solo quando manca tutto il resto».

È l’assenza, allora, che si fa aletheia, svelamento, verità.
E la vita diventa come l’ammore scumbinato, troppo arrepezzato… ca nun ha sunnato cchiù.

Maria Cavallo, laureata in Lettere Classiche e in Storia Antica, è una docente di lettere nei licei con esperienza internazionale presso la Scuola Europea di Francoforte. Ha collaborato con l’Ufficio Cultura del Consolato Generale d’Italia a Francoforte e con l’Istituto di Cultura di Colonia, moderando incontri con scrittori e intellettuali e contribuendo alla promozione della cultura italiana all’estero. Collabora con riviste culturali, è Presidente dell’Associazione Culturale “Tirrenide” di Paola (CS) e Direttrice artistica del festival “Madre Calabria – Percorsi Identitari”. Dedica la scrittura e il suo impegno alla promozione culturale e alla valorizzazione del patrimonio storico e artistico del Sud, in particolare della Calabria, per il piacere di dare forma alla bellezza e per il desiderio di comunicare valori che non solo appartengono all’identità del Sud Italia, ma hanno anche una valenza universale e condivisa.

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Chi sono

Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.
Se ti va, puoi seguirmi sui miei profili social.

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Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.

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