MALAVUCI di Antonella Perrotta – ESTRATTO

Sine Pagina - Malavuci, estratto

Pubblicato su gentile concessione di Ferrari Editore

ANTE DICTUM

Questa è una storia portata dal vento. Accadde a San Zefiro più di cento anni fa. C’è qualche vecchio che lo ricorda ancora, il borgo, e ne parla con la voce che scortica l’aria. Dice che, a vederlo da lontano, sembrava un monolito incastonato nel verde delle alture della Catena costiera calabrese che guardano al Tirreno. Soltanto il campanile della chiesa della Madonna Nera svettava verso l’alto come un punto esclamativo, mentre le mura del santuario della Madonna del Fiume e i resti del castello normanno, accordati col profilo della collina, neanche si notavano.
Eppure, borgo era. Lo chiamavano il paese del vento.
Il vento, lo portava già nel nome, ma quello benevolo di primavera che spira da ponente, rappresentato dagli ateniesi nella Torre di Andronico con le sembianze di un fanciullo dal mantello fiorito. A San Zefiro, invece, soffiava in ogni stagione e non sempre annunciava il sereno. Anzi, il più delle volte, prometteva tempesta. Avvertiva con un sussurro, un sibilare leggero, e, poi, si liberava con la foga acerba di un qualcosa che non riesce a dominare se stesso. Si arrampicava sulle scalinate ripide che univano i quartieri e ne scendeva irruente come un ragazzo giocoso, s’insinuava tra le pietre ruvide delle vinedde, tra le mura rugose dei fabbricati, all’interno dei portoni e delle putighe degli artigiani, fino a violare l’intimità delle stanze abitate attraverso un’apertura incauta o uno spiraglio incosciente e, nel suo avanzare, trasportava da un punto cardinale all’altro l’erba delle colline, la polvere del selciato dei vicoli, il profumo d’incenso delle chiese e del santuario mariano, gli odori del muschio e del limo delle fiumare, quelli del mosto, delle spezie, della saggina, della legna, del carbone e pure il puzzo della fame e delle latrine all’aperto.
Anche le voci trascinava con sé. Sapevano di terra, ma qualcuno ancora giura arrivassero fino al mare, dove l’orecchio dei pescatori era in grado di distinguerle e decifrarle prima che si mischiassero con quelle delle acque. Avevano il tono di antiche cantilene e solo il vento conosceva chi le aveva generate, i volti delle madri che le avevano cantate per prime e quelli degli uomini che le avevano urlate, le vie del tempo percorse prima di saturare l’aria di questi luoghi del Meridione d’Italia.
Era, forse, per via delle voci, declamate con leggerezza di lingua, che tutti credevano che a San Zefiro non esistessero segreti inviolati. Sulle notizie informali i paesani montavano processi, comminavano condanne ed elargivano assoluzioni, gettando, pietra su pietra, le fondamenta di una coscienza morale su cui basavano le proprie esistenze. A volte, bastava un soffio d’aria soltanto a svelare il bordo di un segreto ed era allora che le voci si riproducevano, figlie generate da orgasmi di parole, per essere affidate all’imperio del vento che ne dipanava la trama stipata, sino a quel momento, al riparo della memoria. Ma, per quanto ognuno lo negasse all’altro e finanche a se stesso, c’erano segreti che riuscivano comunque a sopravvivere, acquattati in un rifugio che faceva sperare non fossero scovati e sottoposti a giudizio.
Pare che, al vento, i sanzefiresi avessero fatto l’abitudine. Quando si placava per giorni interi, seguendo la sua oscura logica che lo voleva impetuoso un attimo prima e calmo quello dopo, come un amante appassionato che ha appena soddisfatto le sue voglie, anche gli animi e le voci dei paesani si quietavano, ma soltanto in superficie. Sapevano che sarebbe ritornato e, a proprio modo, lo attendevano. O, meglio, lo cercavano.
E il vento, puntualmente, ritornava.
Di San Zefiro, a parte il cimitero e i suoi fantasmi, oggi, poco resta. Soltanto le rovine aggrappate con ostinazione alla terra asciutta, sgretolata in superficie, segnata da cicatrici ipertrofiche che, un tempo, distillarono sangue. Sono costruzioni mangiate dalle termiti, spettri di polvere, tetti di cielo, muri sbriciolati, dove i vicoli s’insinuano come serpi, strisciando fino alle macerie del torrione del castello, arrestandosi di fronte a qualche slargo che fu piazza e a qualche chiesa sconsacrata, nido di colombi e tana di topi, in cui il tanfo degli escrementi ha rimpiazzato quello dell’incenso. E le fontane, che furono abbeveratoi e lavatoi, sono arse e soltanto polvere grondano, mentre la memoria di quella che fu presenza umana tra le pietre è affidata a cocci di giare e a qualche carcassa di sedia impagliata.
Il santuario della Madonna del Fiume è rifugio di pochi frati che l’hanno eletto loro eremo e vivono lì, fermi nel tempo. Continua a starsene nascosto sulla collina, sul versante di levante, di fianco al fiume Tibisca che fiume non è più, ma fiumara gonfia d’inverno e asciutta d’estate. Poi, soltanto sterpi, cenere, polvere, tanta polvere che ricopre il borgo come una maledizione.
Il vento resiste. Come sarebbe potuto andar via, d’altronde.
Mi è compagno nel mio peregrinare solitario. Ascolto i suoi sussurri, i suoi lamenti, le sue urla che sanno oltrepassare la barriera del tempo e scomporre e ricomporre voci che raccontano storie di assassini, di puttane, di preti, di magare, di forestieri, di pace, di guerra, di miseria, di malattia.
Anche questa, di storia. Nessuna voce sa di clemenza.
Ed è per questo, forse, che San Zefiro si è fatto polvere.

ANTE DICTUM

Era una notte di primavera del 1919.
A San Zefiro il vento smise all’improvviso di soffiare.
Il buio che avvolgeva il paese sigillò un silenzio e una quiete dal sapore di eccezione e gli abitanti si abbandonarono a un sonno profondo.
In casa Bellosguardo, però, Caterina vegliava, circondata dalle ombre inquietanti proiettate sulle pareti del soggiorno da una candela accesa. La sua mente era in subbuglio, i pensieri sovrapposti e rimescolati disordinatamente, sordi al ritmo cadenzato e regolare delle lancette della pendola che soltanto il tempo, ma non la ragione, riuscivano a disciplinare. Si gettò di peso su una sedia e si fece aria con il ventaglio in pizzo nero, uno sguardo alla statuetta di gesso smaltato della Madonna di Pompei in bella vista su una mensola, un altro all’effigie di san Francesco di Paola sulla parete di fronte.
«Ohi, che disgrazia! Solamente voi che state vicini al Padreterno mi potete aiutà!» esclamò, segnandosi con la croce.
Un pensiero, che ultimamente era diventato un tarlo, non le dava pace e rappresentava il cruccio più importante che avesse mai avuto, una delle poche note stonate nella melodia di una vita quasi perfetta in cui i suoni e i tempi si erano correttamente succeduti e incastrati. […]

Malavuci, Antonella Perrotta, Ferrari Editore, 2022, pagg. 150, Narrativa italiana, Formato Kindle + copertina flessibile

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Chi sono

Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.
Se ti va, puoi seguirmi sui miei profili social.

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Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.

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