di Pietro Gattonero
Malavuci di Antonella Perrotta, edito da Ferrari Editore, è un racconto amaro, la descrizione di quanto le male voci, le voci malevole, riescono a condizionare tutta una comunità. Non calunnie, ‘ché le calunnie sono reato, solo insinuazioni seminate a piene mani: chi vede divulga, chi sente divulga, chi immagina, le sue fantasie divulga.
Proprio come i seminatori di un tempo, si getta il seme della maldicenza in un terreno pronto ad accogliere tutto, meglio se di contenuto pruriginoso. E quello che germoglia da quelle semine si propaga, con lo stesso leggero, costante, vigore del venticello della calunnia.
In un paese piccolo, poi, i pettegolezzi sono pane quotidiano, senza questi la vita sarebbe monotona… sarebbe un mortorio.
Antonella Perrotta attinge a piene mani nel territorio dove opera, un po’ per mestiere, molto per passione. La passione per la sua terra natia non le ha impedito di descrivere minuziosamente ciò che rileva nel suo vivere quotidiano.
Ha ambientato il romanzo in un piccolo paese dell’entroterra calabrese, a mezza strada tra il mare d’occidente e l’altopiano silano, quasi a meglio delineare la non dipendenza da una marina in espansione e da un interno già in abbandono. Il che consente ai personaggi del romanzo di vivere distaccati dal resto di un mondo che quasi rifiutano di accettare.
San Zefiro, è il nome del paese, non è dato sapere se in onore del santo martire o per via del venticello che soffia leggero, soave come recita un’antica canzone.
Quanto al santo, onorato come ‘colui che porta la vita’, come compito precipuo assegnatogli da madre Chiesa, appare abbastanza inappropriato per un paese in cui non si sentono vagiti o grida di bimbi.
E il vento… quello zefiro che qui è tutto fuorché soave… è un venticello mefitico, che si insinua in ogni dove, fino a penetrare nelle menti stesse degli abitanti, come un monossido letale.
I tempi: poco oltre la fine della prima guerra mondiale, quando l’Italia tutta vive, malamente, un periodo di transizione tra le distruzioni di questa e una ricostruzione lenta e difficile.
Una famiglia fa da fulcro a tutto il racconto, e intorno a lei ruota un mondo che del male dicere ha fatto virtù.
E il titolo del libro risulta quanto mai appropriato.
La calunnia, dicevo, è vista come reato di fronte alla legge, ma è anche valutata peccato mortale da chi è fedele, da chi, per dire, vede nella confessione al sacerdote lo scarico di pensieri, parole, opere ed omissioni come la liberazione di un peso che ‘potrebbe’ condurre al soggiorno infernale eterno. La calunnia è come un coltellaccio da macellaio che affonda nelle carni e uccide, più o meno lentamente; le voci malevole danno più l’impressione di punture di spillo, con le quali è possibile disossare una persona, ufficialmente senza colpo ferire.
La maldicenza, la mala voce, è vista come peccatuccio veniale, innocuo, poco più che uno sputo in terra, un qualcosa che manco si ritiene di dover confessare, a meno che il prete che deve assolvere non sia anche lui terreno fertile per divulgare. Si dice il peccato, ma non il peccatore è una norma canonica che consente ai preti di sentire, assolvere e parlare del peccato, magari a scopo di prevenzione, senza mai citare la fonte, il che potrebbe metterli a rischio scomunica.
È un libro facile da leggere, difficile da digerire.
Per un lettore comune, non dico puro di cuore, trovare nelle poche pagine di questo romanzo tanta malvagità e malignità racchiuse in così pochi spazi e rappresentate come giusto vivere, è dura.
Al termine della lettura resta un amaro in bocca che neanche il pensiero che di fantasia (forse) si tratta riesce ad addolcire.
Malavuci, Antonella Perrotta, Ferrari editore, 2022, pagg. 150