Recensione di Emanuela Monti
Nell’epigrafe del nuovo romanzo di Serena Penni, La destinazione, edito da Il ramo e la foglia edizioni, c’è una citazione di José Ortega y Gasset, che recita: “Abbiamo solo la nostra storia ed essa neppure ci appartiene”, a sottolineare che siamo il frutto del nostro vissuto, della nostra esposizione alla vita e quindi della nostra interazione con il mondo.
La destinazione è la coerente rappresentazione di questo presupposto.
L’autrice è molto abile a indagare il rapporto causa effetto, a raffigurare il condizionamento prodotto dall’esperienza, ma, più che a investigare come gli accadimenti e le leggi della natura operino sulla società, sembra interessata a cogliere come questi agiscano sull’interiorità, come si applichino all’anima, per cui, per quest’opera, che senza dubbio si può definire un romanzo psicologico, parlerei in particolare di determinismo psicologico.
Con precisione chirurgica e con uno stile agile e coinvolgente, diretto fino alla crudezza, senza inutili orpelli, Serena Penni mostra come gli eventi modellino la psicologia individuale, in particolare come i germi dell’infelicità e dell’inadeguatezza siano da rintracciare nella primigenia relazione con l’altro da sé, in particolare con le figure genitoriali; evidenzia come i paradigmi mentali che si creano nell’infanzia determinino il modo in cui vengono interpretati tutti i rapporti futuri. Stando all’epigrafe e alla narrazione del romanzo, il portato genetico sembra essere nullo.
Vi è quindi un’interessante ironia nel fatto che il più grande timore di Paolo, il personaggio maschile, centrale non solo a livello strutturale, ma anche in quanto costituisce il trait d’union con i due personaggi femminili, sia quello di avere ereditato i geni malati del padre assassino. L’intera esistenza di Paolo è stata condizionata dal padre, ma non dai geni che questi gli ha trasmesso, bensì dall’impatto che il suo gesto traumatico (sia che il figlio ne sia stato davvero testimone, sia che lo abbia solo immaginato) ha avuto sulla psicologia del bambino e quindi dell’uomo.
Questo timore ossessivo appare uno degli elementi più coinvolgenti poiché crea suspense e insinua inquietudine nel lettore, che finisce per condividere la paura del personaggio; risulta inoltre uno dei fattori più efficaci nella caratterizzazione dei personaggi, la prova provata della capacità empatica dell’autrice, qualità essenziale di uno scrittore di valore. Anche la freddezza di Paolo risulta estremamente credibile, in quanto tipica del narcisista manipolatore, che infine crolla e mostra la propria fragilità strutturale con Elisabeth, per la quale sviluppa un’ossessione amorosa.
Tutti i personaggi sono verosimili e vivi, fatti di carne e sangue, ma soprattutto di anima: Carla, con le sue rinunce e i suoi rimpianti, con la sua paura dell’abbandono e la conseguente inclinazione alla subalternità, con la sua dipendenza tossica da Paolo, con il quale vive un rapporto dai risvolti sadomaso; Elisabeth, con il suo dolore segreto, occultato accuratamente, legata a un marito traditore seriale, che non ha il coraggio di lasciare.
Serena Penni è stata molto brava a rappresentare la complessità dei rapporti umani, l’interazione psicologica dei tre personaggi e l’intrecciarsi dei tre punti di vista; le tre personalità formano una sorta di mosaico malato in cui le tessere, proprio perché tutte deteriorate, combaciano perfettamente, ai fini narrativi.
Altro aspetto interessante e coinvolgente è la discrepanza tra maschera e persona. Tutti i personaggi portano i segni di una ferita primitiva e tendono a occultare il loro scheletro nell’armadio; celano la realtà delle loro esistenze per proteggersi, per evitare lo stigma sociale. Nella vita di ognuno di essi c’è una macchia, un elemento inconfessabile, che vogliono nascondere al mondo, per cui sono condannati a indossare la maschera. Eppure, hanno tutti una forte consapevolezza della dicotomia tra apparenza e realtà. Portano con sé questa consapevolezza fin dall’evento traumatico che li ha segnati nell’infanzia o nella giovinezza; da allora si confrontano con la percezione che immaginano il mondo abbia di loro, e da quel momento indossano la maschera.
Mentre i personaggi pirandelliani, per esempio, cadono nell’angoscia e nella dissociazione quando scoprono, inopinatamente, di avere un’apparenza diversa da quella che immaginavano di avere, i personaggi de La Destinazione con l’angoscia convivono fin dal principio, sono dissociati fin dal principio, intendendo come principio l’evento traumatico, perché è da lì che tutto ha avuto inizio (come afferma esplicitamente Paolo, quando dice: “mia madre è stata ammazzata e la mia vita, così come la conosco, è cominciata quel giorno” o, quando, in un altro punto, parlando del suo costante tentativo di disegnare l’immagine dell’omicidio, dichiara di aver rincorso per molto tempo un’immagine, che poi definisce l’“immagine della mia nascita”). Insomma, per usare un paradosso, si potrebbe dire che i personaggi di questo romanzo siano “intenzionalmente dissociati” a scopo protettivo.
Al tema della contrapposizione tra apparenza e realtà si collega un altro tema fondamentale: quello della vergogna e della colpa. Il romanzo analizza in modo sottile il ruolo che l’esperienza della vergogna e della colpa giocano nella costruzione dell’identità individuale.
Secondo la distinzione antropologica tra shame culture e guilt culture, mentre la cultura della vergogna (quella, per esempio, degli antichi Greci) e il sentimento della vergogna rispondono al giudizio di altri e sono indifferenti ai principi etici, la cultura della colpa (ovvero, per esempio, quella occidentale moderna) e il sentimento della colpa sono l’espressione di una sensibilità interiore, del sé moralmente autonomo dell’uomo moderno. Poiché tutti e tre i personaggi de La Destinazione sperimentano la vergogna come colpa, si possono dire pienamente moderni.
A proposito del tema della vergogna, la storia di Paolo in particolare presenta alcune analogie con il romanzo di Annie Ernaux che si intitola proprio La vergogna e che racconta del sentimento scaturito da una scenata nel corso della quale il padre della bambina tenta di uccidere la madre. L’omicidio non si compie, ma per la bambina questo episodio rappresenta una linea di demarcazione e segna la perdita delle illusioni, la caduta del velo di Maya. Basta il tentativo, l’espressione di una simile intenzione a sconvolgere il mondo della protagonista, a far crollare tutte le sue certezze.
Per Paolo, orfano di femminicidio, la vergogna sarà ancora più grande, la devastazione psicologica assoluta. Per questo motivo, per lui, l’unica destinazione possibile sarà un nowhere, un “non luogo” in cui sia libero dalla rete delle relazioni umane, che, anziché funzionare da struttura di supporto psicologico, costituisce una gabbia e implica il fardello della vergogna e della colpa.
Così è da intendere il luogo del Brasile al quale approda.
E qui, non a caso, l’autrice sfuma abilmente la dimensione dello spazio, costruisce un ambiente indeterminato, indefinito, dal sapore onirico e dal valore simbolico. Il posto non viene mai chiamato per nome, è definito come “villaggio”, “luogo”, “paese”, ma mai denominato; addirittura, quando Paolo racconta come era arrivato per la prima volta in questo luogo del Brasile, dice: “A un tratto vidi una strada che girava a destra, senza cartello stradale o altra segnalazione. Indicai con la mano al tassista di seguirla e lui, ancora una volta, ubbidì senza fare domande”.
La vaghezza assoluta conferisce a questo luogo, così come avviene per la fortezza nel deserto di Buzzati, un valore astratto, universale. Il paese diventa metaforicamente un’anticamera della morte, un’anticipazione dell’aldilà e il tassista, a sua volta, assurge a figura simbolica, diviene una sorta di nocchiero mitologico al servizio del Fato. La rappresentazione del setting è quindi funzionale e coerente alla storia narrata, come emerge anche dalla descrizione degli interni che rimandano di volta in volta alla condizione esistenziale e ai tratti caratteriali dei personaggi.
Infine, in relazione alla parola “destinazione” che dà il titolo al libro, questa viene usata esplicitamente nel corso della narrazione nel senso comune di “luogo di arrivo di un viaggio”; appare evidente, tuttavia, che il termine si debba intendere anche e soprattutto nell’accezione letteraria di “destino”. Si può quindi presumere che l’autrice abbia voluto giocare su questa ambiguità, occultando dietro alla rassicurante maschera dell’apparenza, così come fanno i suoi personaggi, una realtà assai più drammatica.
La destinazione, Serena Penni, Il ramo e la foglia edizioni, 2023, pag. 176
Emanuela Monti si è occupata per molti anni di editing e redazione per le maggiori CE. Specializzata in lessicografia, ha collaborato a importanti opere di consultazione, tra cui il Dizionario della lingua italiana di Gabrielli (Hoepli), e il Dizionario spagnolo-italiano di Laura Tam (Hoepli). Nel 2014, prima al concorso della Scuola di scrittura narrativa del “Teatro Litta” di Milano con il racconto La quiete dopo la tempesta. Ha pubblicato racconti su blog, riviste, antologie e siti web (Nazione Indiana, Qui Libri, Bollettino ‘900 ecc.) e i romanzi: Cronaca di un mancato Grand Tour (Giraldi, 2008; inserito nel 2016 nel programma Autori Le strade della narrazione della web tv del Sole 24 ore); I Segnati (Giraldi, 2013); Memorie di un’avventuriera (Il Ramo e la Foglia edizioni, 2022, nella classifica di qualità de L’indiscreto di maggio). Con la silloge L’anima alla macchia (Luoghi Interiori) ha vinto il “Premio Città di Castello” 2018 per la poesia e col testo Venni in un giorno d’inverno ha ricevuto il “Gran Premio della Giuria Ossi di Seppia” per la poesia inedita (2023). Cura la rubrica letteraria Di parola in parola sul lit-blog Culturificio.