Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol

Sine Pagina - Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol

Recensione di Antonella Perrotta

Michele Ruol, in Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia, edito da TerraRossa, compone pagine intense che si dipanano tra le ceneri del trauma. Affermare che raccontano di una perdita affettiva è riduttivo: quello dell’autore è un esercizio di dissezione dell’anima.

Protagonisti del romanzo sono Padre e Madre, devastati dalla morte in un incidente stradale dei loro figli, Maggiore e Minore. Impariamo a conoscere personaggi senza nome proprio, come se il dolore avesse loro strappato anche quello, forse perché il dolore è universale, il nome e il cognome di chi lo patisce non ha alcuna importanza.

Il dolore non esplode tra le pagine, ma si consuma in una lenta combustione interiore, s’insinua, si espande, diventa parte della materia e della stessa esistenza.

“In Padre il dolore si era preso spazio lentamente. Si era allargato, fino a quando aveva coperto tutto. Il suo corpo, i suoi pensieri, quello che gli stava intorno. […] Il dolore era diventato la sua vita; lui era diventato il dolore. Avrebbe dovuto annullarsi per poterlo eliminare. […] Senza accorgersi, aveva lasciato ovunque un’impronta nerastra, una striscia, un segno. Ecco come funziona il dolore, aveva pensato. Macchia quello che sfiori; rimane anche quando non ci sei.”

La narrazione non segue una linea temporale: l’autore abbandona la cronologia e preferisce un movimento circolare, interiore, costruito per frammenti, in cui la narrazione prende forma attraverso gli oggetti, residui e tracce di vite interrotte.

È da lì che parte il racconto: dalle cose, quelle sopravvissute a un incendio – reale, ma soprattutto simbolico – che ha stravolto l’esistenza. Ogni oggetto è un varco attraverso cui filtrano ricordi, dettagli di una vita familiare interrotta.

Un approccio narrativo che riporta, per certi aspetti, a Georges Perec o ad Annie Ernaux, ma – a differenza che in quest’ultima – gli oggetti non rievocano epoche, condizioni e trasformazioni socio-culturali, bensì l’universalità della parabola emotiva di una Madre e di un Padre che hanno tragicamente perso i loro figli.

La voce di Ruol è sobria, misurata, eppure profonda e straziante senza essere mai patetica. Non c’è enfasi, non c’è retorica. Il linguaggio è asciutto, quasi contenuto, come a voler tenere a bada l’emotività, a trattenere le crepe. Ed è proprio questa sobrietà a renderlo potente: ogni frase, essenziale e cesellata, colpisce con precisione chirurgica.

L’immaginario arboreo, suggerito fin dal titolo, si dipana come metafora. Il dolore, scrive Ruol, non scompare col tempo, ma si stratifica: “Il tempo non cancella i dolori; i segni delle tempeste si vedono anche a distanza di anni, come in un albero colpito da un fulmine che conserva, ben visibile, la parte carbonizzata. Eppure non c’è disperazione assoluta: si può continuare a vivere anche portando addosso il segno delle proprie tempeste, così come l’albero continua a crescere e a far spuntare nuovi rami.

“Vivere non è una questione di forza, ma di inerzia …”: forse è in questa frase che si annida la verità più spietata e più umana. Si sopravvive perché non si riesce a fermarsi del tutto, perché il mondo continua a muoversi anche quando tutto dentro di noi sembra essersi bloccato. Spesso la sopravvivenza è un lento, ostinato restare. Un moto minimo, ma sufficiente per andare avanti.

Ce lo ricorda anche l’immagine della clessidra: “Per molti è la metafora del tempo che scorre inesorabile e non si può fermare: sopra quello che ancora abbiamo, sotto quello che ormai è passato. Però a guardare bene, la sabbia si sposta, ma non se ne va mai. Basta girare la clessidra e il tempo riprende a scorrere …”. È un’idea che ribalta la logica del tempo lineare: non tutto è perduto se siamo disposti a rimettere in moto il flusso, a resistere.

Vincitore della trentunesima edizione del Premio Giuseppe Berto, vincitore della nona edizione del Premio Megamark e, al momento in cui si scrive, finalista al Premio Strega 2025, Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia è un’opera coraggiosa che lascia il segno. Un romanzo che non consola, ma accompagna.

Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia di Michele Ruol, TerraRossa edizioni, pagg. 208, 2024

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Chi sono

Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.
Se ti va, puoi seguirmi sui miei profili social.

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Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.

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