Recensione di Antonella Perrotta
Siamo luoghi e memoria.
Siamo quello che abbiamo vissuto, sentito, provato, sopportato. Ogni nostra azione ne diventa il frutto, lo svolgimento, la conseguenza.
Ce lo ricorda Giusi D’Urso nel suo romanzo Se camminare fa troppo rumore edito da Il ramo e la foglia edizioni. Lo fa attraverso la voce intensa e sofferta di Sofia, la protagonista, che si racconta in un lungo monologo in cui alterna lucidità e delirio.
Scava nella memoria, Sofia, tra i segreti e i dialoghi che riesce a contenere e tra quelli rimossi. Graffia senza regole, ché è “un graffito, il ricordo.” Frammenta i ricordi, mischiandoli, sovrapponendoli in diversi strati temporali.
Ritorna bambina nella sua casa col giardino. E poi adolescente trasferitasi con la famiglia dalla Sicilia a Pisa in una casa che sa di muffa e che finisce con ammuffirle pure i sogni.
Ritorna al tempo in cui suo padre era in vita, a quando rideva con lui, a quando invece diventava violento e con la voce da orco, a quando – in preda alla gelosia – le impediva di vivere negandole di fare ciò che fanno le altre persone, come se lei fosse una cosa sua.
“No, perché lo dico io”, le diceva, mentre scivolava sempre più verso l’abbrutimento, la depressione e verso momenti di follia. Solo silenzio fra loro, ché nel silenzio “le parole restano al sicuro”, ché “certe cose non si possono raccontare, lui non le capisce, lui non le sopporta.”
Ritorna a sua madre, sottomessa, muta, con la sua espressione corrucciata sul mondo e gli occhi segnati dalle percosse del marito e camuffati con l’ombretto. Sofia, con sua madre, non rideva mai. Solo silenzio.
Ritorna a quel “male necessario spacciato per amore familiare”, a quel “lessico familiare della pretesa e dell’abuso”, alla sua casa silenziosa e tetra, perché “le case sono come chi le abita. Se c’è un dolore, alloggia lì, a casa.”
Ritorna alla sua amica Filomena, “alta, magrissima, con gli occhi tondi da lemure” che la difendeva a scuola “come se fosse suo preciso dovere, come se sapesse qual è il verso giusto delle cose.”
Filomena è sognatrice, “Filomena è alta, ficca il naso nei sogni ”, è anche lei sola in una famiglia patriarcale. Filomena non lascia andare Sofia, eppure Sofia lascia andare Filomena.
Ritorna al buio che si allungava rapace sulla sua esistenza, alla muffa che avvolgeva la sua casa, la sua vita, i suoi progetti. Ritorna alle corse all’aperto, all’irrequietezza nelle gambe, alla fatica, non quella dell’affanno, ma quella del rientrare a casa dove avrebbe smesso di volare e camminato in punta di piedi. Ritorna al suo essere figlia sperduta e sbagliata che segue una strada che non ha scelto, un destino che non le appartiene, una vita senza passione, senza piacere, ma solo dovere, perché lei è il riscatto vivente di una famiglia modesta. Lei ce la deve fare per tutti.
Ritorna alla follia di suo padre. Sprofonda nella sua, di follia, di donna vittima che sa trasformarsi in carnefice. Di se stessa, in primis. “Conosco la follia a memoria … ci sono cresciuta in mezzo, me ne sono nutrita dopo il latte di mia madre.”
Ritorna indietro, Sofia.
Si guarda dentro, Sofia, prova a capire e capirsi, a fare ordine tra i ricordi dove ordine non c’è, mentre percorre nervosamente una stanza avanti e indietro, con l’ansia e l’insonnia e lo stomaco chiuso, fino a quando tutto diventerà tragicamente chiaro.
Giusi D’Urso ricostruisce con tatto e profondità il disagio psichico di una donna, il disagio di una casa, di una famiglia patriarcale, vittima delle prepotenze e delle violenze di un uomo, padre,marito, malato di mente. È una famiglia che nasconde agli altri e a se stessa verità dolorose – saranno svelate nelle ultime pagine – e che prova ad andare avanti piegata da una sofferenza volontariamente taciuta.
Sono pagine intime e confidenziali che, nel contempo, indagano su comportamenti e sentire sempre più diffusi, su un malessere individuale che ha ormai assunto i toni dell’emergenza sociale. Una casa e una famiglia dovrebbero proteggere, ma non sempre accade, lo sappiamo bene.
Una voce che sa essere un soffio poetico, ma anche un grido quella dell’autrice, quella di Sofia. Fino all’atto finale. Una voce che ci scuote, ci arriva nel profondo. Perché, per quanto ognuno di noi abbia la propria storia e i propri ricordi e per quanto possano essere differenti da quelli di Sofia, in uno spicchio della sua sofferenza, a modo nostro, ci immedesimiamo e ritroviamo anche noi. Siamo tutti luoghi e memoria.
Uno scrigno letterario di bellezza da leggere assolutamente.
Se camminare fa troppo rumore, Giusi D’Urso, Il ramo e la foglia edizioni, 2024, pagg. 224