Un sorriso

Sine Pagina - Un sorriso
Opera di © Mario Perrotta, per gentile concessione dell’artista

Racconto di Fabio Pietrosanti

La tazzina del caffè quasi mi brucia le dita.
Brava, l’hai fatto bollente, proprio come piace a me.
Mi sono chiesto spesso cosa sarebbe la mia vita senza di te, ma per quanto io sia un uomo dotato di una notevole immaginazione, non sono riuscito a darmi una risposta.

Intanto sono le nove, di un martedì qualunque, e tutto ricomincia,  in una sorta di copione riscritto quotidianamente, sempre diverso eppure sempre uguale.
Ecco il rumore metallico, fastidioso, della serranda della lavanderia di Maria Luisa. Un’occhiata all’orologio che porto al polso destro mi è sufficiente per capire che sia leggermente in ritardo. Di solito spacca il minuto, alle nove in punto irrompe col suo fragore, sovrastando per qualche secondo ogni rumore proveniente dalla strada principale del quartiere.

Mi fa pensare ad una caffettiera, questa strada.
Si scalda lentamente, dalle prime luci dell’alba, per poi gorgogliare rumorosamente, nel fervore del suo vivere.

“Ciao Maria Luisa”, grido, salutando con la mano libera. Con l’altra, continuo a stringere  la tazzina del caffè.
Mi piace sorseggiarlo lentamente, per prolungarne il più possibile il piacere. Immagino sia come quando stringi a te la donna più desiderata. Vorresti che quell’abbraccio non finisse mai. E solo perché non puoi sperare nella compenetrazione dei solidi, altrimenti vorresti fonderti con lei, sublimando quell’abbraccio a tempo, nell’eternità.

Perché porto l’orologio al polso destro?
Non è un vezzo, e nemmeno un tick. Il polso sinistro, oltre ad essere dolorante, è occupato dal port. Quella sorta di strumento di tortura buono che facilita la somministrazione dei farmaci dei quali ho necessità in questa fase, diciamo, complessa, della mia vita. Una volta fattaci l’abitudine non ci fai più caso. Lo consideri come fosse un prolungamento della tua vena. Ma questa è un’altra storia.

Il bar di Mario, stamattina, è più affollato del solito.
Mi piace osservare le persone, il loro modo di muoversi, il loro comportamento. Molte sono decisamente abitudinarie, alcune al limite della maniacalità. Questa signora, per esempio, arriva ogni mattina alle nove e un quarto. Oggi non fa eccezione. Potresti rimetterci l’orologio. Sta ordinando il suo caffè schiumato al vetro, come fa ogni giorno, metodicamente, da anni.
Ieri stava quasi impazzendo perché Mario si era dimenticato di metterle da parte il suo cornetto vegano.
“Io mangio sano”, ripeteva a cantilena, con amabile tono di rimprovero. Come se i cornetti vegani non contenessero E471. Incredibile, poi, quel suo pacchiano cappotto rosso verde. Saranno almeno tre inverni che lo indossa ogni giorno. Senza deroghe, senza concessioni alla vasta gamma cromatica; e nemmeno alla fantasia.

Ecco il solito strombazzamento delle undici.
Sempre lui, il bellimbusto col SUV Mercedes. Si ostina, ignorando i posti liberi presenti pochi metri più avanti, a parcheggiare il suo transatlantico nero in doppia fila, sistematicamente, ogni giorno che Dio comanda, impedendo l’uscita ad almeno tre automobili. Parcheggiate bene e nel rispetto del codice della strada e degli altri, quelle sì. E ogni giorno, come sta accadendo ora, siamo costretti ad assistere alla stessa, patetica, scena. Il conducente dell’auto bloccata con la mano incollata al pulsante del clacson, imprecando, rompendo i timpani (e non solo quelli …) a mezzo quartiere. Eccolo, il coatto “ripulito” (solo nel dress code) che arriva di corsa smadonnando con superbia, quasi avesse ragione, accusando il malcapitato da lui sequestrato, di avergli rovinato la colazione.
Ordinaria quotidianità di quartiere.

E finalmente arriva lei.
Eccola, puntuale come sempre, la ragazza dagli occhi di mare. Occhi belli ma tristi. Anche oggi non fa eccezione.
Che strano effetto vedere un viso così bello sempre spento. Mai illuminato da un sorriso. Quale malinconia deve regalargli la sua quotidianità, per impedire alla luce di illuminare quel volto, che, nella sua perfezione, immaginavi potesse scaturire unicamente dalla fantasia  e dal pennello di un grande artista. Forse solo Michelangelo, sarebbe stato capace di immaginare e riprodurre tanta bellezza e perfezione. Eppure è qui, davanti ai miei occhi. Bella e irraggiungibile, persa nei suoi pensieri.
Come ogni giorno.

La osservo da tempo, eppure non si è mai accorta di me. Come fossi trasparente. Ormai ci ho fatto il callo.
La osservo scendere dalla macchina e avviarsi verso il bar. Prima di entrare, si blocca di colpo e si volta, per qualche motivo a me sconosciuto. Per un attimo, i nostri sguardi si incrociano. Mi guarda, mi sorride, e come per incanto il grigiore di una quotidianità piatta si frantuma in milioni schegge di diamante. Sento un brivido di fuoco bruciarmi le viscere.

Mi guardo intorno, convinto che quel sorriso sia rivolto ad uno più fortunato di me, ma devo arrendermi a questa magnifica evidenza. Quel dono, che ha il colore ed il profumo dei fiori di campo, è proprio per me. Ricambio il sorriso. O almeno credo di farlo. Mi immagino con una espressione ebete.
Quando il suo sguardo abbandona il mio mi pervade una sensazione di vuoto, di abbandono. Quel fuoco che per un attimo aveva acceso il corpo e l’anima, si spegne. Sono di nuovo immerso nel grigio. Ora provo brividi di freddo.

“Luca, vieni, la pasta è in tavola.”
“Arrivo, mamma.”

Allungo la mano e spingo la finestra, per chiuderla. Quando giro la maniglia il rumore del quartiere diventa un leggero fruscio di sottofondo, quasi impercettibile.
Immerso nel ritrovato silenzio del mio mondo circoscritto, avvicino la mia sedia, quella che considero il prolungamento del mio corpo e, facendo leva sulle braccia muscolose, sollevo e trasferisco su di lei il peso morto del bacino e di queste gambe inutili. Ora sono libero di muovermi, quasi come fanno i normodotati. Spingo con vigore, con le mani, entrambe le ruote ed in batter d’occhio sono al tavolo. Non mi serve una sedia, ho già la mia.

“Cos’è quella faccia da ebete, Luca?”
“Niente, mamma. Oggi mi sento felice.”

Felice per quel sorriso, che era per me e solo per me.
Oggi non  voglio pensare alla dolorosa terapia che mi attende, nel pomeriggio. Come ogni giorno che Dio ci manda.
Voglio solo che arrivi presto domani. Per aprire di nuovo quella finestra sulla vita. Per sentirmi vivo. E, magari, perdermi ancora in quel sorriso.

[Tratto da una storia vera]

Fabio Pietrosanti è giornalista e scrittore. Autore di romanzi amatissimi dal pubblico: Hodex Codice Rosso (Independently published, 2020); Non volevo fare lo sbirro (con Gianni Gallo, Independently published, 2022); Incontri DiVersi (con Carmela Mascio, Independently published 2023); Lo sbirro nelle spire di Medusa (con Gianni Gallo, Independently published, 2024).

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Chi sono

Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.
Se ti va, puoi seguirmi sui miei profili social.

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Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.

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