Per un’amica

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Foto di Antonella Perrotta ©Tutti i diritti riservati.

Racconto di Antonella Perrotta

C’era una quercia davanti alla mia casa.
La casa dove abitavo da bambina.
Quella che aveva giardini e orti intorno e un corso d’acqua che scorreva vicino che chiamavo “torrente”, ma dire torrente era troppo ché poca era l’acqua e stretto l’alveo.
Quella che, se facevi trecento metri di sterrato, ti ritrovavi in aperta campagna e potevi credere d’essere chi volevi, pure un bruco che si era trasformato in farfalla, pure una principessa che raggiungeva il suo principe, pure un cacciatore buono che, invece di ammazzare le volpi, dava loro da mangiare e le ammansiva.

E ce n’erano di volpi, sì che ce n’erano. Facevano il nido sotto la grande quercia che aveva il tronco e i rami possenti. Si riempivano di ghiande in autunno e, allora, Ciccio – detto Il polacco perché sua madre era venuta dall’Europa dell’Est prima ancora che lui nascesse – le coglieva e le dava da mangiare ai porci. A una a una le coglieva, con la pazienza dei contadini.

Io, invece, con le ghiande facevo collane e anche con i fiori dell’acetosella gialla le facevo e poi succhiavo lo stelo che era acidulo come una caramella al limone. “Ma che schifo! Ci pisciano i gatti!” mi rimproverava mia madre. Sosteneva che a furia di succhiare steli d’acetosella, prima o poi, mi sarei avvelenata o mi sarebbe venuta un’infezione intestinale.

Sui rami della quercia qualcuno aveva legato una corda. Non so chi fosse stato. Forse, Ciccio Il polacco. La vidi una mattina all’uscita da scuola e mi misi a dondolarci sopra, prima seduta, poi in piedi, come fosse una vera altalena.
Un giorno caddi testa sotto perché la corda si era ritorta su sé stessa. Portai il livido in fronte per una settimana. E allora mia madre prese a controllarmi per non farmi avvicinare alla quercia, ma io non volevo lasciarla.
Era mia amica. La migliore che potessi avere.
Mi ascoltava sempre e, secondo me, mi rispondeva anche. Io la sentivo, sebbene tutti – pure mia madre – dicessero che non era possibile perché le piante non tengono voce.
Ma io la sentivo.

C’era un punto in cui i suoi rami s’intersecavano formando un incavo. Era la mia poltrona preferita, quell’incavo lì. Dominavo gli orti e i giardini da lassù e pure il torrente che torrente non era. Salirvi era pericoloso, più che dondolarmi sulla corda come fosse un’altalena ma che altalena non era. Anche per quello mia madre mi controllava, ma quando salivo sui rami della quercia e mi accomodavo nell’incavo non riusciva vedermi, coperta com’ero dalle fronde.

Venne un uomo un pomeriggio. Non l’avevo visto mai. Si fermò sotto la quercia e iniziò a guardarla con l’avidità di un avventore. Da tutti i lati, dal basso verso l’alto, dall’alto verso il basso, tastandone il tronco, i rami, quasi volesse prezzarla. L’osservai dalla finestra con un certo astio, forse gelosia. Venne anche l’indomani, ma questa volta aveva con sé una grossa sega. Uscii da casa e lo raggiunsi. Anche Ciccio Il polacco si avvicinò, ma lui sembrava sapere con certezza cosa avrebbe fatto, mentre io lo temevo soltanto.

Mi arrampicai sui rami, sarei voluta salire fino all’incavo, sedermi lì e restarci perché quella era la mia poltrona e la quercia era mia amica. Non mi sarei mossa da lì ché si difendono sempre gli amici.
“Levati, piccere’! Teniamo da lavorà. Può essere pericoloso!” esclamò l’uomo con la sega e mi tirò giù dalle gambe e poi mi prese in braccio e mi posò a terra, distante dalla quercia, quasi fossi una bambola senza voce.

Nella mia impotenza di fare, iniziò a segare il tronco della quercia con la complicità di Ciccio Il polacco. Tenevano la grossa sega, uno, da un lato e, uno, dall’altro. La quercia iniziò a inclinarsi dolcemente e poi di più, finché cadde giù in un tonfo secco. Io mi tappai le orecchie con le mani, non sopportavo lo stridere della sega. Mi tappai gli occhi, non volevo vedere la mia amica soffrire e morire. Non piansi. La guardai lì, a terra, come si guarda un cadavere che non hai potuto salvare in tempo. Diedi un calcio a Ciccio Il polacco, però.

Dicono che non siamo soltanto materia, ma anche energia e che, in un modo a noi invisibile, le energie dell’universo s’incontrano e si scontrano, si abbracciano e si respingono.
Io avevo abbracciato l’energia di un albero e l’albero aveva abbracciato la mia.
Come avrei potuto spiegarlo? Come avrei potuto far capire che era la mia amica che avevano assassinato? Che anche un albero piange le sue lacrime e sorride le sue stagioni, parla con la voce del vento, genera e partorisce?

Non sarei riuscita a spiegarlo. Per questo non dissi niente, ma un calcio a Ciccio lo diedi, dritto e forte sul polpaccio.
“Beh, piccere’, che tieni?” urlò, strofinandosi la gamba. Non gli risposi. Lo guardai male e dal quel giorno non gli rivolsi più la parola.

Della quercia rimase la base del tronco. Dicono che a ogni cerchio nel tronco corrisponde un anno della pianta. Il tronco della quercia aveva così tanti cerchi da non riuscire a contarli tutti. Arrivai a trecentodue. Quella pianta era così anziana da aver visto la madre di Ciccio arrivare dall’Europa dell’Est e la mia portarmi in pancia e chissà cos’altro ancora, non sapevo immaginarlo.

Io fui la sua ultima amica, colei che l’aveva vista morire assassinata sotto i colpi di una sega senza poter fare nulla. Le conficcarono nel tronco dei chiodi arrugginiti per assicurarsi che non resuscitasse, ché le piante non sono come gli uomini, sanno sanarsi da sole, sanno rinascere senza che un Cristo chieda loro di uscire dal sepolcro e camminare.

Le volpi non tornarono più. Anche loro avevano perso un’amica che sapeva essere casa. Pure il torrente che torrente non era decise di essere parco e l’acqua iniziò a defluire sempre più lentamente, sempre di meno. Mio padre disse che era colpa degli scavi che stavano facendo più a Nord. Dovevano costruire delle case, delle ville di campagna che avessero l’aspetto di case sperdute tra i campi senza, però, essere veramente sperdute tra i campi, ché avevano bisogno di strade per essere raggiunte e di spazi e terreni asciutti per essere costruite. Non servivano gli alberi né i corsi d’acqua e neppure la campagna per quelle ville “di campagna” lì.

Io non avevo più l’età per salire su una corda come fosse un’altalena, per arrampicarmi sui rami e addormentarmi nei loro incavi, per guardare le volpi fare il nido e accudire ai loro piccoli, per succhiare lo stelo dell’acetosella gialla pisciata dai gatti.

Almeno, così dicevano. Che non avevo più l’età.
Ma io sapevo che quello che dicevano era soltanto una scusa.
Ché per i propri errori gli uomini, una scusa, la trovano sempre.
Anche quando non c’è.
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Chi sono

Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.
Se ti va, puoi seguirmi sui miei profili social.

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Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.

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