Racconto di Antonella Perrotta
Il sentiero si inerpica lungo il dorso della collina.
Da un lato, le fronde delle querce e le ginestre fiorite camuffano l’erta; dall’altro, fra l’erba alta si intravede la distesa di olivi e, un po’ più in là, la spiaggia ricoperta di sterpi e il mare piatto.
È l’alba. Luce procede con calma, inspirando a pieni polmoni l’aria che sa già d’estate. La brocca di rame che tiene in mano si muove lentamente con lei.
Non sa l’origine del suo nome, Luce. Sa soltanto che era il nome di sua nonna e, probabilmente, quello della nonna di sua nonna, e questo le basta. È l’unica al paese a chiamarsi così, ma la cosa non la disturba, anzi la fa sentire speciale e, a momenti, l’aiuta a immaginare di non essere soltanto una contadina, ‘na zappatùra, che non può ambire ad altro se non a continuare a zappare la terra per il resto della vita. Un matrimonio di riguardo, magari, la potrebbe salvare dalla fatica e assicurarle un letto che non sia soltanto un cumulo di paglia e del cibo che non sia una minestra di erbe selvatiche.
Ha sedici anni e brutta non è. Ma, i mascùli al paese scarseggiano, chi è morto in guerra e chi è emigrato subito dopo, difficile trovarne uno che non sia né vecchio né sciancato, figurarsi pure uno possidente. E lei non ha nemmeno due lire di dote. Ci pensa spesso, Luce, al suo destino, ma non ora, ché l’alba è rosa e sa di promessa.
Arriva a un pianoro e si ferma. Riesce a sentire il rumore dell’acqua del torrente che scorre vicino, sfiorando le pietre lisce e rotonde. Al lato dell’abbeveratoio, una fontana in pietra serve gli uomini. Luce si avvicina, coi piedi scalzi immersi nella fanghiglia. Riempie la brocca e prepara il cercine da sistemare sulla testa, avvolgendo bene il panno che porta legato alla vita.
Sta per porlo sul capo, quando il canto di un usignolo la distrae. Sa che quello è il periodo in cui gli usignoli depongono le uova ma, per quanto si sforzi di cercare tra il fogliame, non riesce a vederne neanche uno e non vede nemmeno un nido. È bello il canto degli usignoli, uno dei suoni più belli che abbia mai sentito in vita sua, pure più bello di quello della fisarmonica che Severino, il mastro legnaio, suona ai matrimoni.
Resta per un po’ lì ad ascoltarlo, seduta a terra sull’erba, mentre il cielo va cedendo all’azzurro. Lo sguardo si posa sul mare. È senza confini il mare per lei, che non ha mai visto cosa c’è oltre la collina, figurarsi oltre la linea dell’orizzonte. Le è negato l’oltre. Può soltanto sognarlo, ma senza immaginarlo, ché non può sapere come è fatto il mondo.
Si è fatto tardi. Luce sistema la brocca sulla testa, alza il mento per mantenerla eretta e si avvia lungo il sentiero in discesa senza distogliere lo sguardo da terra, ché basterebbe un nulla per perdere l’equilibrio. Il passo si è fatto dondolante, asseconda l’andamento del terreno e i movimenti del corpo, come fosse un passo di danza e lei una ballerina.
Nell’aria, le prime voci dei contadini, le arrivano suffuse. Cantano, gli zappaterra, credendosi usignoli, perché troppo difficile è essere uomini quando non hai pane da far mangiare ai tuoi figli. Cantano, per dimenticare i patrùna e i caporali che, invece, da mangiare, ne hanno in abbondanza.
Luce accenna un motivetto pure lei. È un antico canto calabrese che racconta di rondini libere e di parole d’amore affidate al vento e alle onde del mare. “Tu rinnina che vai lu maru maru, ferma quannu ti dicu du parole … Tu rinnina che vai lu maru maru, corri a jiettari lu suspiru a mari…”
Canta, Luce, anche se quel canto non lo capisce, ché lei la libertà e l’amore non li conosce.
Canta e affretta il passo. È tardi e i campi la aspettano.
Canta e, un giorno, forse conoscerà l’amore. O forse a chiederla in sposa sarà un possidente che neppure conosce e che, se avrà fortuna, non sarà sciancato o vecchio. E allora l’amore non avrà più importanza.
Canta, Luce. E sogna un oltre che non vedrà mai e un amore che, forse, arriverà.
“Si stuja l’uocchi e li passa lu chiantu …”