Racconto di Antonella Perrotta
La sala da pranzo di mia nonna aveva i mobili in fòrmica lucente.
Li avevano comprati, lei e mio nonno, quando si erano trasferiti a casa nuova fuori le mura, abbandonando il quartiere e le vinèdde che sapevano di cenere di guerra. Quando era iniziata la Ricostruzione, insomma, e si era cominciato a costruire a nuovo perché il vecchio era talmente malridotto a causa dei bombardamenti che era meglio se ne restasse lì, ad alimentare fantasmi e memorie.
I mobili di fòrmica sapevano di nuovo tanto quanto le mura, tanto quanto le bacinelle di plastica, i bidè, le vasche da bagno e i lavandini con l’acqua corrente, le calze di nylon e le pentole di ferro stagnato. Pensati migliori della mobilia in ciliegio e in noce, dei pitàli di coccio e delle pentole in rame o in terracotta. Tutto doveva sapere di nuovo negli anni ’50, ché la parola nuovo affascinava come una promessa.
Nella vetrinetta, però, mia nonna aveva sistemato le tazzine di porcellana e i bicchieri di cristallo, grandi, medi, piccoli, che, pure se vecchi, erano doni di nozze e andavano mantenuti. Tirati fuori quando e se fosse venuto qualcuno. Nel periodo di Natale, vi poggiava sopra le guantiere: guantiere con i turdìddi, i chinulìddi, la giuggiulèna, gli scalìddi, le crocette di fichi e i taralli con la glassa di zucchero.
I dolci, li preparava per tempo. Caso mai fosse venuto qualcuno. Così, ancor prima che si accendessero le luci nella grotta del presepe, ancor prima che si accendessero quelle dell’albero – un finto abete spelacchiato, frutto anch’esso del tempo nuovo – il profumo di miele, di fiori e di buccia d’arancia invadeva la stanza da pranzo di mia nonna.
Io la aiutavo ad arruocciùliare la pasta dei turdìddi trascinandola sul fondo del canestro. “Infila due dita dentro, leggera però, sennò si rompono, e fai rotolare dolcemente. Così …” diceva ed io rotolavo gli gnocchetti di pasta in piedi su una sedia, ché neanche al tavolo arrivavo. Anche i dolci facevano parte del vecchio, ma quello era un vecchio buono, che non doveva essere lasciato andare. Anzi, andava preservato e tramandato.
Raccontava mia nonna che i pacchi con i fichi secchi inanellati nel mirto li aveva spediti pure a suo nipote quando stava in Russia a congelarsi per la Patria. “Li ha ricevuti, sai? Mi ha scritto una lettera in cui diceva che si era riscaldato con i fichi perché, anche se s’erano congelati pur’essi, tenevano il calore di casa …” diceva, e sospirava, perché suo nipote dalla Russia non era tornato più. “Disperso” dissero, probabilmente morto col sapore dei fichi secchi in bocca. Che poteva saperne la Patria?
Ecco perché quei dolci erano tradizioni che non dovevano perdersi, perché i ricordi buoni andavano tenuti stretti, profumavano di buccia d’arancia la scia di polvere da sparo, addolcivano di miele il Male che aveva portato e lasciato la guerra.
Le guantiere in equilibrio precario sopra ai bicchieri di cristallo s’intravedevano dai vetri del mobile. Se ne aprivi un’anta, sprigionavano tutto il loro profumo. “Uno, uno soltanto, ché tanto non se ne accorge …” pensavo e, lentamente, aprivo l’anta della vetrinetta e prendevo un dolce dal mucchio, badando bene a non lasciare il vuoto sulla guantiera. L’importante era lasciarne a sufficienza per tutti alla cena della Vigilia.
Credo che mia nonna lo sapesse che mangiavo i dolci prima del tempo. Credo che capisse più cose di quanto sia in grado di comprenderne io, adesso, da adulta, pure se aveva letto e studiato meno di me. Mia nonna conosceva e comprendeva col cuore, perché non è affatto vero che sia soltanto il cervello a capire. Il cervello capisce soltanto ciò che è evidente. Il cuore, invece, scava e scova l’invisibile.
Quei dolci erano parte del Natale. Come la grotta col Bambinello, come il pastore che guarda la stella cometa, come le pecore che brucano l’erba davanti alla grotta e la lavandaia che lava i panni al torrente di carta stagnola che riluce vicino, pure se non scorre. L’odore del miele e dell’arancia si mischiava con quello del muschio, della cartapesta, della creta: era quello l’odore del Natale.
Restano, gli odori. Restano più delle immagini, del suono delle parole che volano via facilmente. Eppure i sensi dovrebbero essere tutti uguali, tutti parimenti importanti. Invece, gli odori restano di più. Forse perché è difficile e raro sentire nuovamente un odore uguale a quello impresso nella memoria e, allora, resta per sempre, senza alcuna contaminazione.
È rimasto l’odore del Natale a casa di mia nonna.
È rimasto anche l’odore dei taralli di albume d’uovo ricoperti di glassa di zucchero, quelli leggeri che potevi mangiarne dieci di fila e non ti sentivi mai sazio né gonfio. Quelli della ricetta perduta perché a volte, nella foga del tramandare, qualcosa si disperde, pur non dimenticandosi del tutto.
Come i passi sulla neve del nipote che non ha fatto ritorno.