Il mio nome è Giustizia

Sine Pagina - Il mio nome è Giustizia

Racconto di Marina Aureli

* Benché mio fratello Ernesto, il più grande di una schiera di marmotte intontite, avesse studiato al conservatorio e conoscesse a menadito la Recherche di Proust e a ogni piè sospinto tirasse fuori dal taschino una frase tutta latinizzata, come se attingesse a un repertorio sedimentato dentro di sé dall’epoca del liceo, era l’uomo più cafone, maleducato e vigliacco che avessi mai conosciuto sulla faccia della terra.

Indossava sempre un completino casual, un po’ retrò, la cravatta allentata e le scarpe di camoscio. Aveva la pelle rosa e morbida come quella di un bambino, nonostante avesse superato da un pezzo i quaranta, le basette lunghe e i capelli ondulati con un ciuffo che gli cadeva sulla fronte.

In famiglia tutti ammettevano che gli dei erano stati molto indulgenti con Ernesto. Persino i nostri genitori concordavano, con un tono rassegnato e orgoglioso allo stesso tempo, che il fascino e la spigliatezza del loro figlio maggiore non aveva paragone. *

Magari fosse solo questo. Mio fratello era anche l’uomo più abbietto, narcisista, spregiudicato e manipolatore che avesse raggiunto la carica di sindaco.
Era riuscito ad abbindolare tutti.
I paesani contestavano il suo modo di fare, ma soltanto tra di loro. Una volta al suo cospetto, nessuno riusciva a tenergli testa.

Io e lui eravamo ai ferri corti da anni, da sempre cercavamo di essere i prescelti dei nostri genitori. Era solito raccontare che da piccoli ci contendevamo il latte materno, più che altro era lui che, ormai grandicello, pretendeva che nostra madre lo allattasse.

Sono cresciuta con questi racconti: tutti ridevano per compiacerlo, mentre io nutrivo rancore. Mi sono laureata giovanissima in giornalismo d’inchiesta. Volevo dimostrare di essere diversa da Ernesto. Più lui ricercava il denaro e il potere, più io ricercavo l’onestà e la giustizia.

Nel tempo sono arrivata a collaborare con testate giornalistiche importanti. Ma fare questo lavoro al tempo dei social, non consente di vivere serenamente. E difatti, la situazione si complicò quando mi trovai a collaborare in un’inchiesta che coinvolgeva proprio Ernesto.

Conobbi un magistrato, Rosario Saltafosso. Stava lavorando a un caso di sversamenti tossici industriali. Conobbi anche Francesca, la sua agente di scorta. Diventammo amici e collaboratori. Senza nemmeno rendercene conto, ci trovammo da soli contro l’intero sistema.

Tutte le informazioni in nostro possesso portavano a un’azienda che finanziava l’attività politica e finanziaria di Ernesto. Decidemmo inizialmente per un piano d’attacco mediatico: bisognava innanzitutto far conoscere i fatti alla popolazione. Trovammo foto, video, testimonianze che provavano il coinvolgimento dell’azienda. Ma, poco tempo dopo, la Banda Bassotti, che era nel libro paga di Ernesto, iniziò a creare profili fake sui social e iniziò una gogna mediatica nei miei confronti.

Cercavo spesso di parlare con Ernesto, ma non si faceva mai trovare. Mandava il suo leccapiedi: un messo comunale. Un certo Gualtiero Alzalavela. Un bell’uomo di cui, devo ammettere, subivo il fascino. Tendevo a fidarmi di lui, anche se la mia parte più razionale mi metteva in guardia. Però, davvero non sembrava cattivo.

Oltre a Gualtiero Alzalavela e alla Banda Bassotti, nell’associazione a delinquere di Ernesto c’era il dottor Zanetta. Anche Zanetta, come Alzalavela, era ambiguo. Fu uno dei primi a scoprire il traffico di rifiuti tossici, ma incredibilmente le prove in suo possesso sparirono e non se ne parlò più. In compenso, divenne direttore di uno degli ospedali più importanti della regione. Zanetta era il peggiore: aveva ingannato tutti ed era entrato nel sistema, a libro paga, facendo finta di essere contro quel sistema stesso. Cosa peggiore, era un medico. L’aveva fatto per soldi e potere.

Continuavo a raccogliere prove tra testimoni e persone che si ammalavano, Scrivevo articoli satirici, ma veritieri. Più scrivevo, più le persone iniziavano a prendere consapevolezza e volevano prestare aiuto. Più scrivevo, più gli attacchi della Banda Bassotti si facevano ostili.

Avevamo scoperto il luogo dove si incontravano, il negozio di fiori di Iris: al Coniglio Bianco. Il negozio richiamava un po’ la favola di Alice nel Paese delle Meraviglie. Iris, la fioraia, era la donna più svampita che avessi mai conosciuto. Per la Banda Bassotti doveva essere un gioco da ragazzi usare il suo negozio e la sua complicità come copertura alle proprie malefatte.

Tra le altre cose, la banda creava fake news. Smontare le notizie false impegnava molto tempo. Devo ammettere che era anche divertente, soprattutto quando venivano fuori le tresche amorose in cui erano coinvolti insospettabili. Le storielle, vere o meno, clandestine o alla luce del sole, ruotavano intorno alla macellaia, che intratteneva relazioni con molti paesani, originando ripicche e gelosie.

Per spulciare le notizie e per districarci in quello che spesso diventava un labirinto, mi incontravo con Saltafosso e Francesca nel bar di Cettina. Ci faceva passare dal retro, da un vicolo frequentato solo dai gatti randagi che puzzava di piscio. Lì, mettevamo a punto le mosse che avremmo fatto di volta in volta.

Lavoravamo tanto, ma è stato il periodo più bello della mia vita. Con Rosario e Francesca era nata una bellissima amicizia. Se fosse stato necessario, li avrei protetti con la mia vita e, ne sono certa, loro avrebbero protetto me.

Ma qualcuno notò la lucina accesa fino a tardi nel retrobottega del bar di Cettina e s’insospettì. Una sera mi sembrò di vedere un’ombra con il giaccone del negozio del Coniglio Bianco che ci stava spiando dalla finestra.

Arrivò, finalmente, il momento che stavamo aspettando: un testimone decise di parlare ed era in possesso di filmati che provavano gli illeciti commessi. Decidemmo di vederci, come sempre, da Cettina e di visionare il materiale. Eravamo pronti: Ernesto e i suoi complici avevano i giorni contati.
Ma, improvvisamente, un lampo. E poi il boato.

Le fiamme e il fumo avevano invaso tutto. Non vedevo più nulla.
Rosario e Francesca vennero sbalzati verso la porta. Chissà dov’era Cettina.
Cascavano pezzi d’intonaco.
Sentivo puzzo di piscio.
Ero fuori tra i bidoni dell’immondizia.
Il suono delle sirene dei pompieri.
Tra le fiamme e il fumo l’immagine di un Coniglio Bianco.
Nessuno mi aveva vista.

La notizia passò su tutti i giornali e le televisioni con titoli a caratteri cubitali: “Il famoso magistrato Saltafosso e l’inseparabile Francesca sono stati uccisi in un attentato. Una bomba è stata fatta esplodere nel bar di Cettina, dove i due erano soliti incontrarsi con una famosa giornalista che stava collaborando a un’inchiesta di smaltimento di rifiuti illegali. Nell’attentato perde la vita anche Cettina, la proprietaria del bar. I corpi straziati di Saltafosso e di Francesca sono stati trovati vicini; il corpo di Cettina in quella che era la cucina. Non si è trovato il corpo della giornalista.”

Riuscii a dileguarmi e sparire.
Pochi giorni dopo furono celebrati i funerali di Stato.
Mio fratello, la Banda Bassotti, Iris, Zanetta, erano tutti in prima fila e si battevano il petto. La macellaia, gli amanti, le mogli gelose, i padroni delle fabbriche coinvolti, il testimone che non aveva più nulla da dire stavano tutti in chiesa, ognuno con le proprie colpe.

Ogni cosa era tornata al suo posto.
Niente faceva pensare mi fossi salvata. In assenza del corpo, la mia fu una morte presunta.
Li avrei cercati. Non avrebbero più avuto pace.
Il mio nome sarebbe stato: Giustizia.

*   Incipit di Adrián Bravi. Racconto pubblicato fuori concorso col titolo “I giorni di Rosario” nel collettaneo per la quinta edizione di incipit d’autore – Associazione culturale Picus. Questa versione è stata rimaneggiata per Sine Pagina.

Marina Aureli è un’operaia di 53 anni da sempre appassionata di lettura e scrittura. Impegnata in campo culturale, anche grazie ai social ha avuto l’opportunità di conoscere autori e le loro opere e di relazionare e moderare eventi letterari.

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Chi sono

Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.
Se ti va, puoi seguirmi sui miei profili social.

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Mi chiamo Antonella Perrotta. Nasco in Calabria la sera che precede il Lammas da madre siciliana e padre calabrese. Osservo, ascolto, leggo, scrivo, amo la Storia e le storie, il narrare e il narrarsi, ma non sopporto il chiasso e il chiacchiericcio. Sono autrice dei romanzi Giuè e Malavuci (Ferrari Ed., 2019, 2022) e di racconti pubblicati in volumi collettanei, blog e riviste. Performer dei miei testi. Fondatrice del blog Sine pagina.

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